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Le tutele del lavoratore 247 Pagate le tasse, tuttavia, ove il lavoratore abbia dichiarato somme maggiori di quelle ricevute in quanto lordizzate (ossia maggiorate di imposte teoriche e contributi) ed abbia pagato le imposte su tale maggior somma (ipotesi come detto del tutto remota nella prassi), il lavoratore potrebbe chiedere al datore il rimborso della differenza in più pagata a titolo di imposta, dimostrando che secondo gli accordi era a suo carico quella parte differenziale. Non va sottaciuto peraltro non sempre è così, in quanto il carattere “nero” del rapporto, se nella maggior parte dei casi è dovuto a scelta del datore, e si può dire che il rischio della emersione del rapporto sia a carico del datore, in altri casi è invece frutto di accordo delle parti: si pensi al caso del lavoratore che abbia una pensione o altro lavoro incompatibile. Secondo tale orientamento, allora, si tratta sempre di somme lorde e non si può parlare di somme nette in quanto imposte e contributi non possono essere dimenticati: “lordizzare” le somme corrisposte serve allora ad evitare che all’inadempimento del datore dell’obbligo di ritenuta si aggiunga la percezione da parte del lavoratore di somme, con il rischio che nessuno versi alcunché. A considerare quale percepito il solo netto, infatti, si finisce con l’ammettere che, dopo che il datore non ha pagato contributi e ritenuto e versato imposte, il lavoratore riceva la parte ad esse relative (e tuttavia imposte e contributi continuino a restare non versati ai soggetti pubblici beneficiari): il meccanismo della ritenuta serve infatti ad evitare che il lavoratore percepisca le somme spettanti a terzi (fisco e INPS, essendo considerata insufficiente garanzia la mera sussistenza dell’obbligo al pagamento). Secondo altro orientamento, il problema della c.d. lordizzazione del percepito sarebbe un falso problema, sicché la determinazione delle differenze retributive spettanti al lavoratore andrebbe fatto secondo un calcolo che detrae al lavoratore, al lordo di contributi ed imposte, quanto dal lavoratore stesso effettivamente percepito. Infatti, il percepito è solo un acconto di quanto spettantegli: la retribuzione spettante al lavoratore – per intero o quale differenza di quanto già ricevuto – è, infatti, quella c.d. lorda, sulla quale lui poi dovrà pagare imposte e contributi. Ottenute le differenze, il lavoratore nella successiva dichiarazione dei redditi sarà tenuto ad evidenziare quanto effettivamente percepito, senza detrarre alcunché a titolo di imposta già pagata se non ha ricevuto alcuna trattenuta. Tale soluzione è coerente in relazione all’autonomia del rapporto tributario e contributivo rispetto a quello di lavoro: la ritenuta d’acconto che il datore di lavoro effettua al momento del pagamento della retribuzione attiene al rapporto tributario per il quale quello di lavoro, ai fini della ritenuta d’acconto effettuata dal sostituto d’imposta, rileva solo quale momento di produzione del reddito. In tal senso, il giudice, nel determinare le differenze retributive spettanti al 248 Capitolo Terzo lavoratore, e quindi in sede di giudizio di cognizione, non potrebbe effettuare un intervento – del tutto illegittimo, perché non previsto da alcuna norma – quale controllore del versamento dell’imposta da parte del lavoratore. Secondo tale orientamento, l’eventuale detrazione di imposte e contributi a carico del lavoratore può avvenire solo in sede esecutiva, quando avviene il pagamento. Altrimenti il lavoratore correrebbe il rischio di vedersi riconosciuto con sentenza un credito dal quale sono già state detratte imposte e contributi da lui dovuti, ma di non riuscire a realizzare il credito in sede esecutiva (per i più vari motivi), per cui avrebbe pagato imposte (al datore di lavoro che si avvantaggerebbe degli importi detratti in sede di determinazione del credito spettante al lavoratore, senza versarli) e non potrebbe neppure ripeterle dal fisco, in quanto non versate o lui non in grado di mostrarne il versamento. Diversamente, se in sede esecutiva il datore di lavoro dimostra di aver versato al fisco una somma, quale sostituto di imposta del lavoratore, allora potrà estinguere il suo debito retributivo pagando la somma dovuta al netto della ritenuta effettuata, attestando al lavoratore di aver versato per suo conto al fisco l’importo delle imposte trattenute, quale sostituto, in sede di pagamento. Sul tema, va ricordato in ogni caso che secondo la Commissione tributaria centrale n. 2994/1996: Nel caso in cui il datore di lavoro eroghi compensi in nero ovvero senza che gli stessi siano stati assoggettati a ritenuta alla fonte secondo quanto previsto dall’art. 23, D.P.R. n. 600/1973, il lavoratore percettore è tenuto in qualunque caso alla dichiarazione Commissione tributaria centrale 1° giugno 1996, n. 2994. Quanto alla misura della retribuzione, va rilevato che, ove la contrattazione collettiva non sia direttamente applicabile tra le parti, la stessa può operare come parametro di retribuzione equa ex art. 36 Cost., di modo che la retribuzione contrattuale collettiva può essere applicata (in tutto o – secondo un indirizzo giurisprudenziale resistente – in percentuale) tra le parti, le cui pattuizioni individuali (che prevedono la paga irrisoria o comunque inadeguata) sono nulle per violazione della norma inderogabile – e direttamente precettiva nei rapporti interprivati – della Costituzione. In materia, la Cassazione ha escluso la possibilità di applicare riduzione al trattamento collettivo in relazione alle condizioni territoriali del mercato; ha precisato così che: Le tutele del lavoratore 249 Nel determinare la giusta retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., il giudice, che non ritenga di adottare come parametro i minimi salariali della contrattazione collettiva (la quale solo presuntivamente assicura la corrispondenza della retribuzione al precetto costituzionale), deve specificamente indicare le ragioni che sorreggono la diversa misura da lui ritenuta (in relazione alle diverse fasi di svolgimento del rapporto) conforme ai criteri di proporzionalità e sufficienza posti da detta norma. La determinazione della giusta retribuzione in un importo inferiore ai minimi salariali della contrattazione collettiva non può comunque mai essere motivata con il richiamo delle condizioni del mercato del lavoro nel settore di attività cui appartiene il rapporto dedotto in giudizio, poiché il precetto costituzionale è appunto rivolto ad impedire ogni forma di sfruttamento del dipendente, qualunque sia la ragione che tale sfruttamento rende possibile e quindi anche quando, secondo l’id quod plerumque accidit, esso trovi radice nella situazione socio economica del mercato del lavoro Cass. 29 agosto 1987, n. 7131. Altra giurisprudenza è pervenuta al risultato della riduzione percentuale degli importi contrattuali collettivi ai fini della determinaione delle differenze retributive spettanti per altra via: si sono ritenute nulle in particolare, le pattuizioni di retribuzioni inferiori di oltre una soglia percentuale (individuata nella giurisprudenza di merito spesso nella misura del 20%) alle retribuzioni collettive e si è sostituito il trattamento illecito e nullo con quello sufficiente a riportatre ad equità la prestazione dovuta dal datore. Secondo la Cassazione: Nella determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente a norma dell’art. 36 Cost. il giudice non ha alcun obbligo di assumere a parametro i minimi salariali previsti dalla contrattazione collettiva di diritto comune, non potendosi attribuire alla stessa, neppure indirettamente, efficacia erga omnes, e tenuto conto altresì della mancanza di alcun criterio legale di scelta nell’ipotesi di una pluralità di norme collettive contemporaneamente in vigore. Ne deriva che non è censurabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata, la decisione di merito che, nel determinare la retribuzione spettante al lavoratore edile a norma del menzionato art. 36 Cost., abbia apportato un correttivo in diminuzione (nella specie in misura del venti per cento) ai minimi salariali previsti nella contrattazione collettiva di settore, tenendo conto della quantità e qualità del lavoro prestato, delle condizioni personali e familiari del lavoratore, delle mercedi praticate nella zona, del carattere artigianale e delle dimensioni dell’azienda Cass. 9 agosto 1996, n. 7383. Il Tribunale di Lodi si è altresì pronunciato affermando che: Nell’ipotesi in cui uno o entrambe le parti non siano iscritte alle associazioni stipulanti, il contratto collettivo spiega tuttavia un’efficacia riflessa nel senso che ad esso può utilmente riferirsi il giudice come parametro orientativo per la determinazione della retribuzione adeguata ex 9. Capitolo Terzo 250 art. 36 Cost.; peraltro, non di per sé la riscontrata esistenza di un qualunque minimo scarto tra quanto in concreto percepito ed i minimi retributivi fissati dalla contrattazione collettiva deve far ritenere insufficiente ai fini di cui all’art. 36 Cost. la retribuzione corrisposta occorrendo la prova che tale retribuzione non è proporzionata ex art. 36 Cost. Trib. Lodi 27 giugno 1980. La valutazione di adeguatezza della retribuzione è una valutazione complessiva; sull’argomento la Cassazione ha ritenuto che: La corrispondenza della retribuzione al precetto dell’art. 36 Cost. deve essere apprezzata in riferimento al compenso complessivo, costituito dalla paga base e da tutte le altre attribuzioni patrimoniali e non patrimoniali a carattere necessario e retributivo, non potendo il giudizio sull’equilibrio fra lavoro svolto e corrispettivo essere formulato con riferimento a singole voci retributive Cass. 19 dicembre 1981, n. 6739. E ancora: Ove si adotti, quale parametro per la determinazione della giusta retribuzione, un contratto collettivo non vincolante fra le parti, il solo fatto del mancato adeguamento, da parte del datore di lavoro, di indennità accessorie corrisposte al lavoratore ad un aumento pattuito in sede di contratto collettivo non è di per sé significativo nè probante di una violazione del principio ex art. 36 Cost., che può essere appurata dal giudice soltanto avendo riguardo al complesso delle voci retributive attribuite al lavoratore e conseguentemente riscontrando l’insufficienza e inadeguatezza di tale importo retributivo globale rispetto al cosiddetto minimo costituzionale rappresentato essenzialmente dalla retribuzione base stabilita dalla contrattazione collettiva non direttamente applicabile e dall’indennità di contingenza (a meno che anche la valutazione di altri istituti contrattuali sia dimostrata essenziale e imprescindibile per rendere la retribuzione adeguata e giusta ai sensi della norma costituzionale) Cass. 28 marzo 2000, n. 3749. Anche la Corte Costituzionale si è pronunciata sul tema statuendo che: L’art. 36 Cost., nel proclamare il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata al suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa non può essere riferito alle singole fonti della retribuzione del lavoratore, ma alla sua globalità. Al fine di accertare la legittimità della retribuzione dei lavoratori dipendenti in relazione al disposto dell’art. 36 Cost., in altri termini, occorre far riferimento non già alle singole componenti, ma al complesso della retribuzione Corte cost. 22 novembre 2002, n. 470 2. 2 Nel caso, la Corte ha addirittura ritenuto non fondata la questione di legittimità costitu- Le tutele del lavoratore 251 La Corte Costituzionale, ribadendo il principio enunciato nella sent. n. 141/1979, secondo cui l’art. 36 Cost., nel proclamare il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata al suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, non può essere riferito alle singole fonti della retribuzione del lavoratore, ma alla sua globalità ha esplicitamente statuito – a proposito della disciplina (art. 1, comma 3, legge 15 novembre 1973, n. 734) dell’assegno perequativo, la quale «comporterebbe una retribuzione del lavoro straordinario inferiore a quella per il lavoro prestato nell’orario di servizio» – che: Al fine di accertare la legittimità della retribuzione dei lavoratori dipendenti in relazione al disposto dell’art. 36 Cost., occorre fare riferimento non già alle singole componenti, ma al complesso della retribuzione Corte cost. n. 227/1982 3. Restano esclusi invece gli istituti retributivi tipicamente contrattuali, come ad esempio la quattordicesima mensilità o il compenso per lavoro straordinario in misura superiore a quella legale. Secondo la Cassazione, nell’individuare la retribuzione applicabile al lavoratore ai sensi dell’art. 36 Cost., il giudice, pur potendo utilizzare come parametro di raffronto la retribuzione prevista dal contratto collettivo di lavoro del settore applicabile, non può tuttavia attribuire il trattamento normativo ed economico previsto dai tipici istituti della contrattazione collettiva o individuale, dovendo fare riferimento soltanto ai seguenti elementi: quantità e qualità del lavoro prestato, sufficienza e proporzionalità della retribuzione al fine di assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, durata massima della giornata lavorativa come stabilita dalla legge con conseguente determinazione dello straordinario maggiorato con la percentuale di legge e quantificato in riferimento alla durata dell’orario legale, riposo settimanale e ferie annuali retribuiti, tredicesima mensilità (da considerare per la sua generale applicazione come rientrante nel concetto quantitativo di retribuzione sufficiente e proporzionale al lavoro prestato) Cass. 8 agosto 2000, n. 10465. zionale dell’art. 7, comma 5, D.L. n. 384/1992, nella parte in cui consentiva che il lavoro straordinario prestato dai dipendenti delle Ferrovie venisse retribuito in misura inferiore al lavoro ordinario. 3 Il medesimo principio – enunciato esattamente in termini dalla sentenza da ultimo citata – è stato ribadito dalla sentenza n. 164/1994, dalla sentenza n. 15/1995 dall’ordinanza n. 368/1999 e, da ultimo, dall’ordinanza n. 263/2002.