I puritani al Teatro Pergolesi di Jesi,Macbeth al Pergolesi di

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I puritani al Teatro Pergolesi di Jesi,Macbeth al Pergolesi di
I
puritani
al
Pergolesi di Jesi
Teatro
Regia di Carmelo Rifici
Orchestra Filarmonica
Sagripanti
Marchigiana
diretta
da
Giacomo
Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini” diretto da Pasquale
Veleno
Interpreti: Yijie Shi (Lord Arturo), Maria Aleida (Elvira),
Julian Kim (Sir Riccardo Forth), Luca Tittolo (Sir Giorgio),
Elide De Matteis Larivera (Enrichetta di Francia), Luciano
Leoni (Lord Gualtiero Valton), Dario Di Vietri (Sir Bruno
Robertson)
Scene di Guido Buganza
Costumi di Margherita Baldoni
Visto al Teatro Pergolesi di Jesi, domenica 7 ottobre 2012
Si è aperta con I puritani di Vincenzo Bellini e Carlo Pepoli
la XLVa Stagione Lirica di Tradizione del Teatro Pergolesi di
Jesi, con un tutto esaurito per la prima e la replica.
L’ultima opera di Bellini, bellissima ma poco rappresentata
per la sua grande difficoltà tecnica, torna al teatro jesino
dopo 161 anni di assenza.
Questa nuova stagione è dedicata al decimo anniversario della
morte di Josef Svoboda, e continua il “Progetto Svoboda”,
iniziato nel 2009, che consiste nell’allestimento dei piú
grandi successi operistici realizzati in Italia dal grande
regista e scenografo ceco. Dopo I puritani, si succederanno
sul palco del Pergolesi anche Macbeth e Lucia di Lammermoore,
opere accomunate dalla tematica della follia, che coglie le
protagoniste femminili dei tre drammi. DelMacbeth e
della Lucia varranno riproposte le regie allestite da Svoboda,
per cercare di comprendere quanto la sua concezione
drammaturgica possa considerarsi ancora attuale.
Lodevole la capacità della Fondazione Pergolesi Spontini (in
coproduzione con i Teatri del Circuito Lombardo) di allestire
un cartellone d’un livello tanto alto, pur con le limitate
risorse ora a disposizione. La strategia adottata è quella
della collaborazione tra istituzioni liriche, che vede
l’allestimento di spettacoli che possano essere ospitati in
piú teatri, anche di diverse caratteristiche, scegliendo un
cast formato prevalentemente da giovani cantanti.
Pur compiacendoci dell’efficacia di questa formula, dobbiamo
comunque denunciare la condizione in cui versano gli enti
lirici italiani, che si trovano sempre piú spesso a dover fare
affidamento su fondi molto ridotti, incerti, che mettono in
difficoltà il lavoro e la posizione delle varie figure
professionali
coinvolte
rappresentazioni.
nell’allestimento
delle
Entrando nel merito della messa in scena di domenica 7
ottobre, possiamo fare alcune considerazioni di carattere piú
squisitamente artistico. Nonostante la difficoltà della
partitura, l’esecuzione è stata molto piacevole, mai noiosa,
merito soprattutto dei mirabili interpreti maschili Luca
Tittolo, Julian Kim e Yijie Shi, ammirevoli anche per la loro
dizione, sempre molto chiara e netta.
Sorprendente il baritono Julian Kim, dotato d’una voce rotonda
e ricca di armonici, omogenea nei vari registri; preciso e
sicuro nei fraseggi eseguiti senza sforzo, e capace di una
grande presenza scenica.
Il basso Luca Tittolo è perfetto nella parte di Sir Giorgio,
punto di riferimento per i giovani innamorati; esprime al
meglio tutti gli stati d’animo, con un’esecuzione impeccabile
e molto partecipata. Una presenza scenica sempre ben misurata,
la sua, decisamente adatta al ruolo.
Yijie Shi, dotato di una voce aperta e squillante, dopo un
primo atto che lo vede alle prese da súbito con un’aria
difficile in cui tende a cantare un po’ di fibra, forzando
sugli acuti, si riscatta appieno nel terzo atto, dove sa
essere piú elegante, ammorbidendo l’emissione, e riuscendo
cosí in ottime messe di voce.
Maria Aleida ha un timbro molto leggero. Belli gli acuti
cristallini, mentre risulta debole nei registri bassi; non è
perfettamente omogenea nel passaggio tra i vari registri e nei
legati, cosa che invece sarebbe richiesta nello stile
belcantistico, proprio di Bellini. Belle le agilità.
Elide De Matteis Larivera, interprete di Enrichetta, ha una
parte secondaria nel dramma, ma va notato il suo timbro molto
piacevole, e la forte presenza sul palco.
Il coro è ben assortito, ha un effetto scenico notevole, mai
fuori posto.
La regia è intelligente e lo spazio ben scandito, organizzato
su due piani: in quello inferiore si svolge l’azione, quello
superiore è destinato invece a rappresentare il mondo
interiore dei personaggi, le loro preoccupazioni, ciò che essi
immaginano stia accadendo altrove, i loro fantasmi.
Il disegno delle scene è molto sobrio, costruito su linee
essenziali e geometriche. Eleganti e mai eccessivi i panneggi,
illuminati con maestria da luci che fanno rispendere i bianchi
accesi dei vestiti di Elvira e dànno corpo agli abiti scuri
degli uomini e del coro, i quali, confezionati con materiali
plastici, sottolineano la natura costrittiva del puritanesimo
e la repressione delle passioni da esso operata. Molto
raffinato l’abito della regina. Forse un po’ eccessive solo le
bandiere alla fine del terzo atto, che d’altra parte, anche
musicalmente rompe la misura dell’opera belliniana con il
duetto di Riccardo e Giorgio, di gusto molto verdiano e di
grandissima efficacia.
Complessivamente è stata una messa in scena davvero notevole,
efficace e convincente, e all’altezza del consenso
internazionale che le iniziative della Fondazione da sempre
raccolgono.
Serena Api e Lorenzo Franceschini
Macbeth al Pergolesi di Jesi
Orchestra
Filarmonica
Marchigiana
diretta da Giampaolo Maria Bisanti
Regia di Henning Brockhaus
Scenografia di Josef Svoboda, ricostruita da Benito Leonori
Interpreti: Luca Salsi (Macbeth), Tiziana Caruso
Macbeth), Mirco Palazzi (Banco), Thomas Yun (Macduff)
Coreografie di Maria Cristina Madau
(Lady
Costumi di Nanà Cecchi
Continua con il Macbeth di Verdi la stagione lirica del
“Pergolesi” di Jesi. Ancora un grande successo di pubblico per
il teatro marchigiano, con questo spettacolo allestito in
coproduzione con la Fondazione Teatro Lirico G. Verdi di
Trieste e la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
Un’opera sorprendente, molto ricca dal punto di vista
cromatico e originale rispetto alla tradizione lirica, a causa
della mancanza di un protagonista tenorile, e dell’assenza
totale di parti belcantistiche destinate ai protagonisti.
Il grande approfondimento psicologico dell’opera verdiana
viene magistralmente sottolineato dalle scenografie
illusionistiche di Svoboda, debuttate con grandissimo successo
nel 1995 a Roma e applaudite anche a Genova, Ascoli Piceno,
Budapest e Tokyo. Alla danza delle streghe, di grande
efficacia scenica, si alterna la danza della luce e
dell’ombra, grande protagonista in queste scenografie. La
luce, grazie a uno specchio trasparente, crea nuove
profondità, nuovi scenari inquietanti dove avvengono i delitti
dei Macbeth e dove si agitano i fantasmi che funestano i
coniugi.
In una delle scene del primo atto, Lady Macbeth indossa un
abito grigio che si confonde con lo sfondo rupestre della
scena, quasi a mostrare un suo profondo legame con la natura,
propria della donna-strega, che alle forze naturali è
fortemente legata.
Il secondo atto si apre con la proiezione, sullo sfondo, di
immagini intricate, che richiamano alla mente l’intreccio dei
piani delittuosi dei coniugi.
Audace l’espediente di far parlare un attore che interpreta un
soldato morente abbarbicato ad una balconata del teatro, come
a rompere l’illusione scenica del palco, facendo entrare lo
spazio dello spettatore nello spazio della scena.
Una piacevole coreografia di streghe accoglie lo spettatore
all’inizio del terzo atto, due di loro danzano sospese a dei
nastri. L’effetto d’insieme ricorda alcuni quadri di Dalì,
dalla grande verticalità. In generale, le scene corali sono
molto curate, in particolare al principio del quarto atto. Le
streghe capovolgono il trono di Macbeth, lo buttano a terra,
dove strisciano loro, creature subumane, a indicare una
depauperazione della dignità regale ormai giunta alla fine
della decadenza. Una strega, simbolicamente, sottrae un lume a
Lady Macbeth che lei impazzisce. Si lava convulsamente. La
fine arriva ineluttabile.
Come nel caso de I puritani, anche in questa occasione gli
interpreti sono tutti al loro debutto nei rispettivi ruoli
nell’opera verdiana. Luca Salsi è un soddisfacente Macbeth,
dotato di voce piena e grande resistenza, ha retto
instancabilmente la scena sino all’ultimo.
Mirco Palazzi: Banco. Elegantissimo il suo canto, decisamente
piacevole il timbro. Insieme a Salsi ha reso al meglio il
duetto “Due vaticini compiuti or sono…” del primo atto; le
loro voci regalavano un continuo susseguirsi di positive
emozioni.
La naturale fisicità di Tiziana
Caruso
le
consente
di
impersonare bene Lady Macbeth.
Belle le aperture ai forti:
anche se a volte un po’ spinte,
sembrano comunque contribuire al
carattere del personaggio. Un
uso rigoroso della maschera nel
registro centrale e grave però
ha fatto sentire a volte la mancanza di qualche passaggio in
più “di petto”. Convincente.
Robusta e bella la voce del tenore Thomas Yun, nel ruolo di
Macduff; ben salda la sua tecnica, purtroppo non altrettanto
impeccabile la dizione italiana. Buona la presenza scenica.
Gradevole l’interpretazone del tenore Dario Di Vietri in
Malcom, fresca la sua voce, dolce nell’emissione.
Scenicamente di impatto il coro delle streghe.
Si conclude questo fine settimana la stagione lirica jesina,
con Lucia di Lammermoor, che chiude questo ciclo dedicato alle
follia femminile nell’opera.Serena Api e Lorenzo Franceschini
Lucia
di
Lammermoor
Pergolesi di Jesi
al
Termina in bellezza la stagione lirica di tradizione del Pergolesi di
Jesi, con la Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizzetti.
L’opera si apre con un ampio drappeggio, illuminato di blu,
che si alza lentamente. Vi si proietta sopra l’immagine di un
mare di sangue, che ricorda le scenografie cruente
del Macbethmesso in scena pochi giorni prima. Dispiace la
lunga pausa che precede la scena del volano: fa pensare a
qualche inconveniente, tenendo lo spettatore in un momento di
sospensione troppo lungo per essere chiamato suspance.
A questo vuoto fa séguito una bellissima scena di quattro
fanciulle che giocano con pallina e racchette, con il mare
come sfondo, che si muovono con grande grazia e leggiadria,
quasi fossero ninfe. Allo sfondo marino seguono delle
margherite, non bellissime, che però contribuiscono a dare
un’idea di levità e innocenza alla scena. Lucia prona e con le
gambe all’aria canta spensierata, poi duetta con Edgardo, col
mare sullo sfondo. Il tutto è molto bello. Poi la situazione
precipita a causa della ferma volontà del fratello di lei di
ostacolare il suo amore per Edgardo.
Grande Julian Kim nel secondo atto, interpreta molto bene il
ruolo del fratello di Lucia, pieno d’irremovibile odio, sordo
al pianto della fanciulla, rigoroso, implacabile. Lucia,
annientata dalla volontà del fratello, rimane senza forze a
terra – sublime l’immagine di lei in un abito candido e
luminoso. È l’inizio della fine.
Un altro lungo intervallo dopo la prima metà del secondo atto,
un po’ fastidioso. La scena che segue è però un trionfo:
rappresenta al meglio l’atmosfera di festa, gli abiti
belissimi, estremamente curati ed eleganti. A un certo punto
la spensieratezza della situazione viene bruscamente
interrotta dalla comparsa di Edgardo. Grande tensione che
preannuncia il confronto tra l’innamorato e il fratello. Molto
bella la scena con Edgardo e i convitati dopo la firma del
contratto con il quale Lucia viene praticamente venduta per
salvaguardare l’onore e il patrimonio della famiglia. Anche
Raimondo, uomo di Dio, contribuisce a vendere la fanciulla,
scongiurando il duello tra i due uomini. In questo momento
inizia la danza scomposta di due ragazze partecipanti alla
festa, a significare la cruda e volgare strumentalizzazione di
Lucia, sacrificata a logiche di potere famigliare.
Bellissima anche la scena di festa del terzo atto, in cui
tutti sono ubriachi, scomposti e vestiti in modo eccentrico,
spezzata dall’apparizione del cadavere che rotola dalle scale.
Lucia compare inquietante: il volto stravolto, sporco di
sangue, la persona trasfigurata.
Già noto al pubblico del Pergolesi ne I Puritani, il
baritono Julian Kim nel ruolo di Lord Enrico Asthon conferma
appieno la sua bravura; sicura e bella anche questa
interpretazione.
Miss Lucia è interpretata da Sofia Mchedlishvili, giovane
soprano dalla vocalità delicata e piacevolmente omogenea; è
stata molto brava a catturare la giusta attenzione nella
famosa scena della pazzia.
Sir Edgardo di Ravenswood (Gianluca Terranova): emotivamente
efficace
e
dal gradevole timbro, tuttavia è risultato a
volte poco morbido nei passaggi sugli acuti, purtroppo.
Scenicamente
corretta
è
stata
la
presenza
di Giovanni Battista Parodi nel ruolo di Raimondo; non male
la sua voce, un peccato il lento vibrato. Ugualmente corretti
ma meno convincenti a livello tecnico sono stati Alessandro
Scotto di Luzio e Cinzia Chiarini, rispettivamente Lord Arturo
Bucklaw e Alisa.
Appropriato il Normanno di Roberto Jachini Virgili.
Degni di nota i cantanti del Coro Lirico Marchigiano “V.
Bellini”, sempre bravi nelle scene loro dedicate. Piacevole a
vedersi, il coro, sia nei momenti solenni che in quelli più
giocosi.
Serena Api e Lorenzo Franceschini
Il caino inevitabile tra noi.
Sul
Caino
di
Mariangela
Gualtieri (di Daniela Shalom
Vagata, 2012)
Bologna, Arena
Marzo 2012
del
sole,
30
Si può dire che sia piaciuto poco uno spettacolo, che sia
piaciuto un gran che l’allestimento, ma riconoscere che il
testo a mala pena udito, le danze, le luci, i suoni, stiano
ancora lì a ricordare che Caino, fratello di Abele, figlio di
Adamo e capostipite degli uomini, è uno di noi.
Si può parlare della scenografia – semplice: una tavola di
legno che è un letto africano, una testa di cartapesta
gigantesca e una più piccola trafitta da una lancia, i
microfoni sparsi e una palma pasquale –, ci si può sentire in
disaccordo, e riconoscere l’influsso di Pasolini. Un’eco
da Sodoma nelle ragazze a gattoni (il coro dai seni nudi), e
un richiamo al Vangelo secondo Matteo nel volto pietoso di una
madonna africana (chi era?). D’altronde la musica finale è la
stessa del Vangelo di Pasolini, come lo stesso è il quadro di
dolore. Caino che uccide Abele è Erode che manda Cristo in
croce, è Giuda che tradisce, è chi accusa, chi giustifica se
stesso nel tremendo, chi non si guarda dentro e non ha pietà
per sé.
Siamo io e te.
Si può riflettere sull’efficacia della parola teatrale, e
accorgersi che del testo di quella sera è rimasto soltanto il
timbro della voce degli attori, il ritmo della scansione delle
parole, le desinenze degli infiniti (i verbi non compiono,
galleggiano), ma che quelle parole non sono rimaste.
– Dov’è la parola? Cosa è rimasto di quella sera?
– Cosa è rimasto di noi due?
– La partitura ritmica.
In un certo senso è rimasto qualcos’altro di Caino.
Del Caino di Mariangela Gualtieri esistono il libro e lo
spettacolo, in sè distinti e che si commistionano. La parola
appartiene a un testo denso, altamente poetico, ma difficile.
In scena essa lascia cadere il significato per attaccarsi al
suo valore fonico e ritmico, avvalendosi della musica, delle
azioni e della danza. Ne vale un riflessione sul significato
della parola teatrale, e sul potere di tanta delicatezza che
sopravvive, monca, nel suono.
– Parola scissa nel corpo e nella mente? O tutte e due
insieme?
Il risultato è un balbettamento, e quel balbettamento risuona
nell’impossibilità di dire fino in fondo il male, come
suggerisce l’autrice nell’introduzione al libro. Alla lettura
del testo qualche settimana dopo lo spettacolo, quel
balbettamento mi si era attaccato addosso come un’ombra.
Nella scena Caino è un uomo vestito di nero e da donna. Ha i
tronchetti col tacco da flamenco e cammina lentamente, con il
corpo teso in avanti, anche quando si volge all’indietro, come
se portasse un peso e non riuscisse a mantenersi dritto. Si
muove bidimensionalmente nello spazio, tra i lati del palco.
Un essere strano questo Caino, troppo simile a te o a me,
donna, o uomo. Forse ha già rinunciato ad essere uomo, ed è
diventato il caino, il fatto. Ma che sia uomo o immagine
emersa dalle parole, il Caino giunge dritto a colpire
l’immaginazione dello spettatore-lettore, e induce a
riscrivere la storia biblica.
Così ti racconto un’altra storia, Caino:
All’inizio dei giorni del mondo, Adamo ed Eva si amarono ed
ebbero un figlio, poi un secondo, secondo il volere di Dio. I
due figli si chiamavano Abele e Caino, e quei due nomi erano
il mio e il tuo, uomo e donna, vulnerabili, paurosi e
maledettamente umani. All’inizio di quei giorni, Caino e Abele
furono invitati da Dio a recargli dei doni, ma Dio accettò i
doni di Abele il pastore, e rifiutò quelli di Caino
l’agricoltore. Un giorno della storia dell’uomo, Caino uccise
Abele. Quel giorno della storia dell’uomo, Caino divenne come
Abele, perché uccise come il pastore scanna gli agnelli. Caino
abbandonò la sua terra e fondò le nostre città. Ma quando
uccise Abele, Caino divenne anche Dio perché portò la morte
dentro la storia. La morte entrò nella vita dell’uomo e
continuò ad vivere a fianco a lui altri ed altri giorni
ancora.
Allora perché Caino? chiedo io.
Caino sembra un’ingiustizia. La storia partì dal rifiuto di
Dio.
Se Dio è perfetto, perché volle Caino l’imperfetto? Perché
volle il caino?
Quale colpa? Quella di aver desiderato troppo amore?
Tradire, mentire, non capire… Caino è il mio volto o il tuo?
Caino sei tu? O sono anch’io?
Il Dio di Mariangela Gualtieri ha voluto Caino per dare la
misura dell’uomo: il suo limite nei centimetri del legno della
bara; nel numero dei passi per cercare la terra finita; nella
stretta della mano, rotta dalla mano amata. Lo strappo del
finito e il bisogno totale, infinito, di amore.
Why Caino? Perché, Dio?
Ma ricordati… : c’è il sole e c’è la pioggia. C’è il giorno e
c’è la notte. C’è il buio e c’è la luce. Il torto e il
perdono. La gioia e la rabbia e il dolore. L’unione e la
separazione. La vita e la morte.
Era inevitabile.
Non dimenticarlo, il caino inevitabile tra noi.
Inizialmente si può non amare uno spettacolo, e poi cambiare
idea e concludere che quello stesso spettacolo è piaciuto,
anche molto.
e