9. Mauro Ronzani - La memoria nella storia medioevale

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9. Mauro Ronzani - La memoria nella storia medioevale
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La memoria nella storia medioevale: qualche spunto
per la lettura, la ricerca e la didattica
Mauro RONZANI
Università di Pisa
Prima di esporvi le poche cose che ho preparato, vorrei fare un paio di considerazioni
preliminari e introduttive. Innanzitutto, sono molto lieto di essere stato invitato a parlare qui, e
di poter così iniziare a collaborare con questo Centro per la didattica della storia, la cui
meritoria attività ho seguito finora solo dall’esterno. E la soddisfazione che esprimo è sia quella
del docente universitario di storia medievale, che negli ultimi anni ha partecipato attivamente
(e forse con entusiasmo eccessivo) all’applicazione della riforma nota come “tre più due”
nell’ambito del Corso di Laurea in Storia dell’Università di Pisa; sia quella del responsabile
(altrettanto intensamente ‘coinvolto’) del corso di “Storia” presso la sede pisana della Scuola di
Specializzazione per l’Insegnamento secondario (ossia la “SSIS”) della Toscana.
In secondo luogo, come spesso mi accade quando prendo la parola in incontri ‘a più voci’ come
quello di oggi, devo pregarvi di ‘allacciare le cinture di sicurezza’, perché – come avviene
viaggiando in aereo, in fase di decollo o d’atterraggio, o durante una turbolenza – dovremo di
colpo cambiare quota, passando a trattare di un’età lontana, e la cui conoscenza e
ricostruibilità storiografica è condizionata da una situazione documentaria incomparabilmente
più povera e frammentaria di quella a disposizione di chi studia secoli più vicini al nostro.
Accogliendo l’invito lusinghiero – e ‘provocatorio’ nel senso migliore del termine – degli amici e
colleghi che hanno promosso quest’incontro, mi propongo dunque di offrire una rassegna
rapida (ma, lo spero, sufficientemente indicativa) dei modi in cui il tema della “memoria” può
essere affrontato, studiato e – ovviamente – insegnato nell’ambito della storia medievale.
Cercherò di procedere in modo utilmente ‘schematico’, e appoggiandomi il più possibile a
esempi concreti.
Ebbene, se ci si chiede in quali ‘accezioni’ si può declinare lo studio della “memoria” per il
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periodo medievale, la prima che viene in mente, e che sembra anzi la più scontata, è quella
della “memoria cittadina”, rappresentata essenzialmente dalle narrazioni di tipo cronistico. Dal
punto di vista del nostro tema di oggi, tali narrazioni sono interessanti in tanto in quanto vi si
possa cogliere la percezione che i loro autori hanno dell’epoca in cui affondano le radici del
presente nel quale essi vivono, e che si propongono di descrivere e celebrare.
Faccio subito un esempio. Se prendiamo una cronaca cittadina famosa come quella redatta dal
fiorentino Giovanni Villani nel secondo quarto del Trecento, e proviamo a scorrerne i primi
“libri” (nell’edizione critica recentemente fornitane da Giuseppe Porta), per vedere attraverso
quali tappe la Firenze trecentesca ha costruito la propria identità, dopo la ‘mitica’ fase della
fondazione in età romana (e dopo l’altrettanto ‘mitica’ fase della cristianizzazione in età
tardoantica), troviamo ben pochi spunti nel racconto delle vicende successive, e restiamo
alquanto delusi pure dai pochi cenni dedicati a Carlo Magno. Ben più che nel IX secolo, secondo
il Villani (ma la stessa opinione è condivisa anche dalle cronache pisane, il cui rapporto con
quelle fiorentine è ancora tutto da studiare), le ‘radici’ della società fiorentina del Due e
Trecento affondano nel secolo seguente, in quello strano secolo complicato e ‘buio’ che è il X, e
soprattutto la sua seconda metà: l’età di Ottone I e dei suoi omonimi successori. Nel Villani
troviamo infatti l’idea ben chiara, che le grandi famiglie fiorentine (anzi: di tutta la Toscana)
dell’età comunale siano arrivate in Italia al seguito di Ottone I, l’imperatore “tedesco”,
subentrato ai “franchi” Carolingi, incoronato a Roma nell’anno 962. A ben vedere, Villani non fa
che raccogliere un’idea diffusa fra le grandi famiglie fiorentine e toscane del suo tempo, ossia
quella di trarre le proprie origini dal periodo in cui l’Impero e il regno italico erano nelle mani
degli Ottoni, e la Tuscia, inquadrata nella sua Marca, era governata in loro nome dal marchese
Ugo, attestato dal 970 al 1001 (l’anno della morte). Non sarà inutile aggiungere che la
storiografia moderna ha sostanzialmente confermato e rilanciato quest’idea: le ‘origini’ della
Toscana odierna sono da ricercare nel secolo X assai più che in altre epoche anteriori o
posteriori (gli Etruschi, o il Granducato mediceo!).
Passando al secondo punto, un altro tema che attualmente è molto in voga anche nella storia
medievale è la cosiddetta “memoria costruita”, o meglio: la “costruzione della memoria”. Di ciò
si parla soprattutto in relazione alle istituzioni ecclesiastiche: monasteri, canoniche, a volte
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anche sedi vescovili, e poi Ordini religiosi, come – dal Duecento in avanti – i Francescani e i
Domenicani.
Un ente ecclesiastico può ‘costruire’ (o ‘ricostruire’) la propria memoria, quando decide di
scegliere cosa salvare e cosa scartare della propria tradizione documentaria; facendo
un’operazione simile, sul piano delle ‘carte’ e dei ‘contratti’, a quella fatta per i testi dei
manoscritti, quando, ad un certo punto, ci si era posti il problema di quali opere della
letteratura latina continuare a trascrivere, e quali invece non copiare più (decretandone così,
nel giro di qualche secolo, la sparizione). Ecco dunque che nascono i cosiddetti “cartulari”, nei
quali si trascrivono i documenti giudicati ancora importanti e utili: è su fonti di questo tipo –
‘allestite’ consapevolmente ad un certo momento dell’esistenza di un monastero o di un altro
ente ecclesiastico - che gli storici odierni studiano la storia del cenobio, della canonica o del
vescovato in questione.
Un altro esempio, forse ancor più interessante e calzante in questa sede, riguarda le narrazioni
di tipo storico, e quindi – in senso proprio – la definizione della “memoria” del tal monastero,
della tal canonica, del tale Ordine. Pensiamo solo al faticoso processo di costruzione della
memoria storica ‘ufficiale’ dell’Ordine minoritico, nei pochi decenni fra la morte del Fondatore e
l’imposizione della biografia di Francesco scritta da san Bonaventura come unico testo
accettabile e accettato! Un altro esempio, certo più piccolo ma non privo d’interesse, è quello
di un testo famoso dell’inizio del secolo XII, ossia la cosiddetta “Vita Mathildis”, scritta da
Donizone, monaco del monastero di Sant’Apollonio di Canossa. In realtà, più che la ‘semplice’
biografia di Matilde, si tratta delle vite di tutti i principi della casata canossiana: lo scopo,
ovvero la funzione di quest’opera è proprio quello di elaborare e redigere in forma solenne,
attraverso la storia dei principi fondatori e protettori, la ragion d’essere del monastero di S.
Apollonio, per consentirgli di sopravvivere, e di continuare ad essere rispettato, venerato e
beneficato, anche dopo la morte dell’ultima esponente della casata (Matilde, appunto, morta
nel 1115). Su tematiche siffatte si sta lavorando intensamente, in questi anni, un po’ in tutta
Europa.
Una terza accezione di memoria che possiamo introdurre rapidamente in questa sede, ancora
forse più pertinente e più tecnica, è la memoria come ‘commemorazione’, in particolare per
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creare una continuità fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Tema e fenomeno molto
importante per il Medioevo, che può essere colto attraverso due tipi di testimonianze. Il primo
- tipico del Medioevo – è quello dei cosiddetti “necrologi”, o dei “libri dei morti”, o anche dei
“calendari ecclesiastici”. Sono tutti manoscritti e testi nei quali, per ciascun giorno dell'anno,
assieme ad altri ricordi o accenni di tipo liturgico, c'è il nome di uno o più personaggi che
devono essere commemorati perché sono i benefattori, i benemeriti o anche antichi membri
dell’ente, della chiesa o del monastero stesso, per i quali bisogna pregare, bisogna fare una
liturgia di suffragio, e così via. Queste raccolte di nomi sono una sorta di ‘bacini collettori’: nel
caso particolarmente eclatante del monastero di San Pietro di Cluny, che ha un raggio di
azione europeo, vediamo che c'è mezza aristocrazia europea dentro a questi libri, questi
necrologi cluniacensi. Ed è il modo tipico per ricordare, per trasmettere la memoria di tutti
coloro che, legati al monastero, ne sono stati benefattori, e per i quali i monaci si impegnano a
pregare ogni anno (e per l’eternità), per il suffragio della loro anima. Tutto ciò è legato
naturalmente all’idea dell’efficacia delle preghiere di suffragio, e allo sviluppo della liturgia dei
morti, così tipica di Cluny (monastero al quale dobbiamo la prima istituzione del due novembre
come giorno della “commemorazione dei defunti”).
I “libri dei morti”, gli “obituari”, i “necrologi” sono tipici dei secoli centrali del Medioevo. A
partire all’incirca dall’inizio del Trecento, abbiamo un altro tipo di testimonianze, questa volta
non più manoscritte ma ‘materiali’. Dalla commemorazione intesa come inserimento nei libri
liturgici, si passa alla commemorazione veicolata dalle epigrafi funerarie, applicate a tombe in
muratura fatte per durare ‘in eterno’. Proprio nel secolo XIV, infatti, si comincia ad avvertire un
mutamento di fondo nella sensibilità ‘sepolcrale’: è il momento in cui s’impenna la domanda di
sepolture poste non più nei cimiteri ‘a cielo aperto’ contigui alle chiese, ma dentro le chiese
stesse (e il più vicino possibile agli altari!), oppure nei chiostri delle grandi chiese conventuali
dei Francescani, Domenicani e degli altri frati mendicanti. È il momento degli “avelli”, ossia
delle tombe pavimentali con epigrafe recante il nome del primo defunto che vi sia stato
inumato e lo stemma della sua famiglia (giacché la tomba è destinata ad accogliere tutti gli
“eredi” che vorranno farvisi seppellire!), poste in luogo chiuso e protetto, ma aperto alla
pubblica frequentazione. Per fare un esempio di immediata evidenza, un monumento così
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originale e ‘suggestivo’ come il Camposanto di Pisa, la cui costruzione è interamente
trecentesca, rappresenta la risposta alla domanda – anch’essa tipicamente trecentesca – di
sepolture ‘privilegiate’, al coperto, con lastra tombale ed epigrafe, tese a tramandare nei secoli
la memoria del defunto (o meglio, dei defunti della famiglia). Da questo punto di vista, il
volume recente di Ottavio Banti, che ‘cataloga’ e riproduce fotograficamente le epigrafi e le
scritte obituarie delle oltre trecento tombe incastonate nei pavimenti dei quattro corridoi del
Camposanto, rappresenta un ultimo tributo alla volontà di quanti, acquistando tali “avelli” (o,
nel lessico tardo-medievale, “monumenti”) dall’Opera del Duomo, intendevano appunto essere
ricordati e, in questo modo, ‘commemorati’.
Ma è tempo di passare ad un’ulteriore, interessante ‘accezione’ del tema che stiamo trattando.
È quella sicuramente più immediata, quella che verrebbe in mente anche a un ragazzino.
Infatti, cosa vuol dire innanzitutto memoria? È come dire: “io mi ricordo”; è il ricordo
personale, che si può esprimere immediatamente in forma orale. E anche questo lo troviamo
nel praticare la storia del medioevo. Quando? Soprattutto nei secoli XII e XIII, e in ambiente
giudiziario: quando si tratta di comprovare un diritto, o una situazione di fatto, che risalga
indietro nel tempo, ma di cui non si possano produrre in giudizio testimonianze scritte
inoppugnabili; e si ricorre perciò alle deposizioni dei testimoni, chiamati a convincere i giudici
attraverso le loro dichiarazioni e risposte. Alcuni esempi di raccolte di deposizioni testimoniali
sono anche molto più antichi: il più famoso – e molto noto agli storici – risale addirittura
all’anno 715, quando un messo del re Liutprando effettuò una vera e propria “inchiesta” (in
latino: inquisitio), tesa a risolvere la disputa fra i vescovi di Siena e di Arezzo intorno
all’appartenenza di un certo numero di chiese battesimali all’una o all’altra diocesi. In
quell’occasione, i testimoni furono chiamati a rispondere a domande concernenti il vescovo che
aveva consacrato e installato in sede il “rettore” di questa o quella “pieve”; ovvero a quale
sede vescovile costui si rivolgesse per ricevere il “crisma” che serviva per la consacrazione
dell’acqua del battesimo e per altri scopi liturgici; e ancora, laddove possibile, le modalità di
costruzione della varie chiese battesimali contese.
Le raccolte di deposizioni testimoniali diventano più numerose, tuttavia, solo nel secolo XII, e
fino alla metà del XIII: abbiamo allora grandi pergamene con decine e decine di dichiarazioni,
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oppure anche rotoli formati da più pergamene cucite insieme. Come dicevo, i testimoni
potevano essere chiamati (sempre dalle parti in causa) a comprovare che un certo diritto era
detenuto ed esercitato da molti decenni, o che un certo confine fra due proprietà fondiarie (e
spesso anche fra due ambiti di esercizio del potere signorile) era stato fissato pubblicamente
molto tempo avanti, ed era stato sempre rispettato. In genere, essi rispondevano a domande
precise e ricorrenti, derivanti dall’elenco di argomentazioni che ciascuna delle parti in causa
aveva presentato ai giudici. Ma bisogna dire che nessuna risposta è mai interamente uguale ad
un’altra: anche volendo dire la stessa cosa detta dai testimoni immediatamente precedenti e
seguenti (caso molto frequente, essendo i testi presentati ‘a gruppi’ da ciascuna parte, e
interrogati l’uno di seguito all’altro), ciascuna delle persone chiamate a deporre la esprime a
modo proprio, con riferimenti personali. A seconda dell’età, l’ambito cronologico delle
deposizioni si allarga o si restringe; ma entrano in gioco anche le esperienze personali e la
stessa sensibilità individuale nel descrivere avvenimenti, episodi, pratiche, consuetudini e così
via. Un aspetto molto interessante è costituito dai riferimenti cronologici: quali eventi si
stagliano nel fluire del tempo e permettono di collocarvi il racconto che si fa? Spesso, vediamo
che questi punti di riferimento sono proprio quei grandi avvenimenti di storia politico-militare,
che una pedissequa e poco intelligente adesione a certi slogans di matrice “annalistica” (con
riferimento alla rivista francese fondata da Bloch e Febvre) ci indurrebbe a snobbare (ossia a
non studiare e a non insegnare). Così, se prendiamo ad esempio le testimonianze prodotte
verso la metà del secolo XII in occasione della controversia fra il monastero di S. Rossore e la
canonica della cattedrale di Pisa intorno alla proprietà e allo sfruttamento della “selva” oggi
compresa nel Parco naturale di S. Rossore (il nome del Parco, dell’Ippodromo, della Stazione
ferroviaria tramanda ancor oggi la memoria di un monastero che cessò di esistere all’inizio del
secolo XIV!), vediamo che molti testimoni, per risalire all’indietro di almeno quarant’anni (arco
di tempo sufficiente a dimostrare la legittima detenzione di una proprietà o l’esistenza di una
consuetudine inveterata), si richiamano alla spedizione balearica del 1113-1115: “mi ricordo
che al tempo della spedizione di Maiorca, quando ero piccolo, vedevo che a tagliare la legna in
questa selva erano i taglialegna del monastero di San Rossore” (etc. etc.). Oppure, se
prendiamo coeve raccolte di deposizioni testimoniali dell’Italia settentrionale, è frequentissimo
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veder menzionato Federico Barbarossa, le cui varie “discese” in Italia lasciarono una traccia
profonda nella memoria dei contemporanei (“quando l’imperatore Federico con il suo esercito
assediò e distrusse Tortona, ricordo che...”). E questa presenza dei grandi avvenimenti
politico-militari è sempre raccordata con la propria esperienza individuale; dalla menzione della
tale guerra, del tale imperatore o console cittadino, si può passare ad annotazioni riguardanti il
vissuto personale, le abitudini della vita privata e del lavoro, le pratiche devote...
Poiché, come dicevo, questo tipo di fonti sono relativamente abbondanti e diffuse, non sarebbe
forse troppo velleitario pensare ad un loro uso didattico, ad ogni livello di scuola e di età dei
discenti.
Sono quelle che meglio forse di tutte le altre ci rendono la vivacità del vissuto, il
ricordo personale, le sensibilità individuali, il senso del tempo... Ai ragazzi, naturalmente,
bisognerà spiegare prima che le testimonianze di tipo giudiziario, nel secolo XII come
nell’Antichità o ai nostri giorni, non contengono necessariamente “tutta” la verità, e qualche
volta contengono anzi “tutt’altro” che la verità; ma anche se indotte a testimoniare il falso,
quelle voci lontane possono raccontare molto a chi abbia la pazienza di leggerle (‘ascoltarle’?)
con attenzione, dopo averle ‘ripulite’ dalla mediazione del notaio che, nel trascriverle su quelle
famose pergamene, le volgeva dal volgare al latino1.
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
1) Giovanni Villani, Cronica, ed. crit. a cura di G. Porta, vol. I, libri I-VIII, Parma, Guanda, 1990.
2) P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma, Carocci, 1991 e
edd. succ.;
E. Prinzivalli, Un santo da leggere: Francesco d’Assisi nel percorso delle fonti agiografiche, in M. P.
Alberzoni et alii, Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino, Einaudi, 1997, pp. 71116;
sulla Vita Mathildis e il monastero di Canossa si potrà vedere la tesi di dottorato di E. Riversi (in corso di
preparazione presso il Corso di Dottorato di Ricerca in Storia dell’Università di Pisa);
3) N. Huyghebaert, Les documents nécrologiques, Tunhout, Brepols, 1072 (Typologie des sources du
Moyan Age occidental, 4);
Memoria: der geschichtliche Zeugniswert des liturgischen Gedenkens im Mittelalter, a cura di K. Schmid e
J. Wollasch, München, W. Fink, 1984;
M. Bacci, Investimenti per l’Aldilà: arte e raccomandazione dell’anima nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza,
2003;
Le iscrizioni delle tombe terragne del Campo Santo di Pisa (secoli 14.-18.), a cura di O. Banti, Pontedera,
Bandecchi e Vivaldi, 1998 (Opera della Primaziale pisana. Quaderni, 10)
4) Il tempo vissuto: percezione, impiego, rappresentazione, Bologna, Cappelli, 1988;
Ch. Wickham, Legge, pratiche e conflitti. Tribunali e risoluzione delle dispute nella Toscana del XII secolo,
Roma, Viella, 2000;
A.Esch, Gli interrogatori di testi come fonte storica. Senso del tempo e vita sociale esplorati dall’interno,
in “Bollettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo”, 105 (2003), pp. 249-265.