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26 ■ CRITICAsociale
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Articolo 6
Sono nulle le schede che non portino segnato alcun quadratello di lista o nelle quali sia
segnato il quadratello di più di una lista.
E’ la sanzione della disposizione precedente,
che stabilisce la obbligatorietà di un unico voto di lista, ad evitare manifestazioni di volontà
politicamente contraddittorie.
Articolo 7
Se il votante non assegna un numero d’ordine a nessuno dei candidati, gli scrutatori assegneranno a ciascuno di essi il numero d’ordine uno. Se uno a più candidati ne sonon
sprovvisti, assegneranno loro il numero d’ordine immediatamente più alto di quello dell’ultimo candidato personalmente designato.
Dato il carattere facoltativo della designazione personale, la mancanza di questa non
può produrre la nullità della scheda. Ma occorre stabilire il valore di tali schede agli effetti della composizione personale della rappresentanza che aspetterà a ciascun partito inn
base ai calcoli numerici di cui al successivo
artico 8. Il votante che non fa designazioni
personali pone tutti i candidati su uno stesso
piano. A tutti deve quindi assegnarsi il numero
uno. Invece la designazione personale limita
ad uno a da alcuni candidati implica una preferenza accordata a questi in confronto degli
altri non personalmente designati.E’ quindi logico che a questi ultimi si assegnerà il numero
d’ordine immediatamente successivo - ossia
aritmeticamente più alto, ed avente quindi un
valore di preferenza più basso - a quello dell’ultimo candidato personalmente designato.
Articolo 8
È considerata cifra elettorale di ogni lista la
somma dei voti di lista raccolti da ciascuna lista. Il seggio dividerà il totale delle schede valide per il numero dei deputati da eleggere, ottenendo così il quoziente elettorale. Quindi attribuirà ad ogni lista tanti rappresentanti, quante volte il quoziente elettorale risulterà contenuto nella cifra elettorale di ciascuna lista. I
posti che resiuduassero verranno attribuiti alle
liste che, nella divisione della loro cifra elettorale del quoziente elettorale, avranno ottenuto i resti più alti. Nelle singole liste saranno
proclamati eletti i candidati, che avranno raccolto una somma numericamente più bassa di
numeri d’ordine. A parità di somma sarà proclamato eletto il candidato più anziano d’età.
Queste disposizioni risolvono il problema
quantitativo della proporzionale, cioè della di-
stribuzione numerica dei mandati fra le varie
liste, come quelle dell’articolo 7 ne hanno risolto il problema personale, e cioè della rispettiva prevalenza dei candidati di ciascuna lista
in relazione al numero dei mandati ad essa
spettanti. A cominciare dal sistema di Hare, la
maggior parte dei sistemi proporzionali ha
adottato il congegno del quoziente. Data però
la non perfetta divisibilità di tutti i dividenti
per il loro divisore, esso ha bisogno di integrazioni, adottata dall’articolo è quella dei resti
più forti, che, anche se non matematicamente
perfetta, risponde al requisito della maggiore
semplicità. Disposizione di grande valore politico è quella che desume la cifra elettorale di
ogni lista esclusivamente dai voto di lista. Ciò
sventa il pericolo, in cui incappano altri sistemi proporzionali, di aggiungere valore politico
a designazioni puramente personali. La graduazione per numeri d’ordine non influisce
sulla cifra elettorale, unica base di conteggio
dei mandati da attribuirsi fra le varie liste.
La portata puramente puramente personale
della graduazione è salvaguardata nell’ultima
parte dell’articolo. Uno significa primo in ordine di preferenza, due equivale a secondo,
ecc. Quindi la somma più bassa di numeri d’ordine indica la preferenza personale più alta. Il
criterio, poi, dell’anzianità, come succedaneo
nel caso di una uguale somma di numeri d’ordine, è empirico, ma ha un valore e una ragione
consuetudinarii, mentre non è completamente
sfornito di giustificazioni intriseca, in quanto
la anzianità suppone maggiore esperienza.
Articolo 9
Quando, durante una legislatura, si rendesse
vacante un posto di deputato, esso verrà attribuito al candidato che,nella medesima lista del
deputato cessante, avrà ottenuto, dopo di lui,
la somma numerica più bassa di numeri d’ordine. Per reintegrare, in casi di parziali vacanze sopravvenute, la rappresentanza dei singoli
partiti, si utilizzano i candidati che in ciascuna
lista seguirono gli eletti nella scala delle graduazioni. Procedere a nuove elezioni parziali
turberebbe la economia del sistema. D’altra
parte,essendo sommamente improbabile che,
colla Proporzionale, riescano tutti i candidati
di una lista, sarebbe inutile una preventiva designazione di supplenti.
Articolo 10
Rimangono in vigore tutte le disposizioni
della legge elettorale politica non modificate
dalla presente legge.
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DIETRO LE IDEOLOGIE
BANCHE, MERCATI, DITTATURA ECONOMICA
Giovanni Merloni
I
contrasti e le opposizioni intransigenti, che si sono sollevati alla
Conferenza di Parigi contro la
tesi italiana di Fiume, sembra abbiano di un
tratto dissigillati gli occhi dell’opinione pubblica italiana che volle la guerra sui retroscena
economici, finanziari, bancari, della Conferenza medesima. Il Partito Socialista aveva già,
fino dai primordi, sostanziato la sua fiera e recisa avversione con argomenti di carattere prevalentemente economico. Al di sopra delle
ideologie con cui la guerra fu orpellata in nome dei più grandi principi democratici e uma-
nitati, il Partito Socialista, dove riuscì, come
in Italia, a separarsi nettamente dalla politica
della guerra, vide chiaro che nelle intime viscere della conflagrazione pulsava l ‘anima
stessa del capitalismo, di un capitalismo giunto a una fase suprema di sviluppo e di crisi.
Erano i grandi imperialismi economici d’Europa che si davano Ia suprema disperata battaglia per il dominio di gran parte del mondo.
Nel corso della guerra, nelle vicende lunghe e
varie degli avvenimenti, questo fattore fu sempre visibile e agì da propulsore potente; e,
quando la partita era terribilmente incerta, un
altro imperialismo più lontano - a riprovare
l’immutabile essenza del gigantesco conflitto
- gettò nella bilancia il suo peso; lo gettò nel
momento più opportuno, per il rendimento più
sicuro e più alto. Né giovò a nascondere l’intima natura deIl’intervento americano la grossa verniciatura idealistica, in stile fìlosoficoreligioso-giuridico, del presidente Wilson.
Non mette conto insistere. Ora, che Io scenario
é interamente crollato, noi ritroviamo, con una
prodigiosa e non immaginata anticipazione nel
tempo, e con una evidenza meridiana di dimostrazione, la riconferma delle nostre critiche,
del nostro metodo di analisi dei fatti storici,
delle nostre previsioni.
Guardiamo dunque alla realtà, che ci è offerta dalle nazioni le quali dichiararono di sostenere la guerra contro l’imperialismo tedesco
perché ogni imperialismo fosse distrutto, perché fosse instaurata nel mondo la libertà e la
giustizia per tutti, per i grandi e per i piccoli,
per i forti e per i deboli, per gli amici ... e per
i nemici. Ci limiteremo per questa volta a una
prima rapida serie di fatti.
Cominciamo dall’America, la più ... idealistica delle nazioni entrate nel conflitto europeo. È noto il grandioso sviluppo che hanno
assunto Ie esportazioni americane sul continente europeo. Si tratta di un movimento che
ha acquistato una crescente intensità durante
gli ultimi anni, in cui l’America ha fornito prodotti di ogni sorta agli eserciti alleati e alle popolazioni civili alleate e neutre. La potenza acquistata in tale periodo e un’organizzazione
sempre più perfetta e formidabile permettono
all’America di importare in Europa grandi
quantità di merci a prezzi migliori di quelli
della produzione locale, per cui il movimento
continua incessantemente e tende ad accentuarsi sempre più. Gli Americani, ad esempio,
hanno già con-quistato coi loro carboni il mercato svizzero, che fin qui era quasi esclusivamente alimentato dalla Germania. A parte questo particolare, I’insieme delle esportazioni
degli Stati Uniti a destinazione del continente
europeo dà, solo per questi ultimi mesi, una
media di eccedenza delle esportazioni americane sulle importazioni in America di più di
400 milioni di dollari; onde si può prevedere
che, mantenendosi allo stesso ritmo anche senza intensificarsi, le esportazioni stesse finiranno col dare agli Stati Uniti, nel 1919, un’eccedenza della bilancia commerciale a loro favore
di non meno di 5 miliardi di dollari !
Nel Belgio si è già istituito un certo numero
di banche inglesi e americane, che aspirano
naturalmente a contribuire in larga misura alla
restaurazione economica del Paese, o a dividerne più largamente i benefici.
Ma, dove lo sforzo e il Ianciamento, per così
dire, del capitale americano si rivelano maggiormente, è nella furiosa conquista che esso
tenta nei Paesi «nemici» e nei Paesi nuovi. Esso è già in via di creare affari considerevoli in
Germania, in Polonia, nella nuova Repubblica
ceco-slovacca, nella Jugoslavia, e cosi via; ordinazioni in gran numero, contratti cospicui,
tentativi di ogni genere per accaparrarsi tutti i
mercati, il maggior numero di mercati. I commercianti inglesi li seguono molto dappresso.
Dietro Ie bandiere di Wilson, l’America si è data in realtà alla più intensa spasmodica penetrazione commerciale nel continente europeo.
In tutti i paesi di Europa la propaganda è la
stessa. Un corrispondente del Matin riferiva recentemente che nel febbraio scorso l’Associazione Nazionale dei fabbricanti americani
rappresentante 4000 fabbriche, e un capitale di
15 miliardi di dollari, inviava delegati a Berlino, ed entrava in pourparlers con gli industriali
tedeschi per riorganizzare i loro affari con capitale americano. Inoltre l’ «American Merchandise lnterchanqe Company», che fu costi-
tuita da poco in America, inaugurava nel marzo
una succursale a Berlino, il cui programma è
precisamente di esportare prodotti tedeschi e di
importare le materie prime dai Paesi dell’Intesa; e non sono questi che alcuni fatti tra i cento
che si potrebbero citare. Come si vede, I’America non ha bisogno di attendere la firma del
trattato di pace per avviare e far prosperare i
suoi affari nei Paesi vinti. La guerra è stata,
specialmente per l’America (e in grado quasi
eguale per l’Inghilterra), un meraviglioso terreno di coltura per i propri profitti capitalistici.
Grazie alla guerra, ,l ‘orientazione .imperialistica degli Stati Uniti è ora in pieno rigoglio.
Un rapporto ufficiale dice che la potenza bancaria degli Stati Uniti, rappresentata dal capitale e annessi, dalla circolazione e sopratutto
dai depositi di tutte le «National Bank », «State
Banks» e «Trust Companies», alle quali si aggiungono ora il capitale e i depositi delle «Federai Reserve Banks», si ragguagliava, nel giugno 1918, a 215 miliardi di franchi. Dal giugno
1914 questa potenza bancaria degli Stati Uniti
era aumentata di 70 miliardi di franchi. E, ove
si aggiunga all’eloquenza di queste cifre la
considerazione che gli Stati Uniti sono in questo momento il più grande serbatoio d’Doro del
mondo (uno.stock di circa 15 miliardi di franchi), si ha agevolmente una idea della potenza
formidabile con la quale l’America, messe da
un lato le ideologie, si prepara - ed è già un
pezzo innanzi sulla buona strada! - a sostituire,
ad assorbire anzi, l’imperialismo tedesco, e ad
instaurare la sua dittatura economica su tanta
parte del mondo. Si comprende quindi come
Wilson - da che la vittoria rende oramai superflui i 14 punti — abbia apporre anche il suo sigillo a quel tale trattato, che gli Alleati stanno
per imporre alla Germania, che ha suscitato le
proteste dei socialisti francesi e inglesi, e che è
la guerra in gestazione ora e sempre, pago di
essersi salvato l’anima col suo non possumus
per Fiume: dove per altro è sempre lo stesso
demone imperialistico, capitalistico e bancario
che parla...
Anche in Inghilterra la formula della concentrazione delle forze domina e caratterizza
il momento finanziario presente. Infatti le
«Joint Stock Banks» di Londra non formano
più oramai, in seguito a un vasto processo di
amalgamazione, che cinque gruppi rappresentanti, come importanza di depositi, più di
34 miliardi di franchi, ossia i due terzi della cifra totale dello Banche inglesi, che è valutala
a circa 50 miliardi di franchi. È questa la più
grande concentrazione di forze finanziarie, che
si trovi riunita in un solo mercato del mondo:
il che significa che il mercato di Londra lotterà
con tutte le sue energie per difendere, o per
rafforzare, il suo primato di ante-guerra.
Dal canto suo; il capitalismo francese accentua le medesime tendenze. Se la Russia ha cessato di essere la grande cliente della Banca
francese, questa già si getta avida sui mercati
dei nuovi Stati slavi, riconosciuti dalle Potenze
alleate, e che essa considera oramai come il
prolungamento dell’Influenza francese nell’Oriente europeo, cioè in Polonia e negli Stati
ceco-slovacchi e yugoslavi.
I principali Stati capitalistici, insomma,
America, Inghilterra, Francia, sono Ianciati alla conquista di mercati nuovi, vicini e lontani,
delle Colonie come dei Paesi economicamente
più deboli, e quindi a intensificare al massimo
grado la produzione industriale per crearsi una
bilancia commerciale sempre più favorevole e
capace di dare i più grassi profitti.
Un esempio tipico del prevalere delle considerazioni economiche su ogni altra considerazione alla Conferenza della pace, è offerto
dalla soluzione che essa ha dato alla questione
del bacino della Sarre, «dove non è chi parli
francese», a cui fa riscontro perfetto il caso di
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Fiume negato all’Italia. In quest’ ultimo, la
smascheratura delle superbe ed evanescenti
ideologie guerriere non poteva essere più completa. Per La Sarre i motivi economici fondamentali non sono meno chiari e luminosi. La
tesi del capitalismo francese fu questa: «l bacini .di Longvy, di Briey e di Nancy possono
vivere soltanto se la Francia avrà il carbone
della Sarre». Le industrie metallurgiche francesi richiederanno domani 80 milioni di tonnellate di carbon fossile all’anno, mentre la
produzione francese raggiunge appena la metà. Diplomatici e storici hanno esumato a gara
il «passato francese del bacino della Sarre».
Sono cose che non guastano, codeste: non si
voleva presentare la questione alla Conferenza
nella sua sola nudità economica. Ma il fatto è
che in visione dei mirifici risultati destinati a
uscire dalla combinazione del bacino carbonifero di Sarrebruck con quello di minerale di
ferro di Meurthe-et-Moselle, ha signoreggiato
gli spiriti, e condotto irresistibilmente allo scopo voluto. Domani il capitalismo e la Banca
francese avranno in quella ricchissima regione
il più complesso e coordinato campo di sfruttamento con tutta una serie di industrie, Iegate
ad essa e legate insieme tra di loro: la industria
carbonifera coi suoi sottoprodotti (prodotti coloranti, prodotti farmaceutici e fotografici),
I’industria metallurgica di cui si prevede colà
uno sviluppo prodigioso, le industrie chimiche, con I’ammoniaca ed il solfato di ammonio per l‘agricoltura, col benzolo, il toluolo;
l’anilina, base di tante materie coloranti.
La morale della Conferenza è questa, e
null’altro.
Abbiamo appena accennalo ad alcuni dei
fatti più salienti, che dimostrano da quali ragioni, per quali fini e con quali risultati la
guerra è stata combattuta, e una vittoria è stata
raggiunta. La disamina deve continuare, e continuerà: non solo a conforto delle tesi e delle
previsioni che furono nostre, ma per gli orientamenti necessari alla nostra opera di ricostruzione, all’azione più consapevole e più efficace nell’imminente domani. s
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ASPETTI E RIFLESSI
DEL PROBLEMA SIDERURGICO
Gino Luzzato
L
a discussione avvenuta ai primi
di dicembre alla Camera dei
Deputati e le ripercussioni
ch’essa ha avuto sui giornali ha dimostrato ancora una volta che non esiste una comune opinione socialista intorno a quello che è, oggi, il
più grande dei problemi industriali dell’Italia
moderna, il problema cioé dei rapporti fra lo
Stato e l’industria siderurgica. Il Gruppo Parlamentare Socialista anche di fronte a questo problema si è mostrato diviso; ma in questo caso
ha manifestato una scissione che non deriva da
diversità di tendenze e di programma, ma dall’impreparazione e dall’incertezza della massima parte dei suoi componenti. Mentre l’on, Albertelli, seguito da pochi altri, si è mantenuto
fedele alle tradizioni più pure del pensiero socialista, contrario ad ogni barriera doganale fra
popolo e popolo, ed ha sviluppato con rigore
Iogico impeccabile le idee liberiste ed antisiderurgiche, che egli aveva ripetutamente manifestate in questa Rivista, la maggioranza del
Gruppo ha preferito seguire l’on. Umberto
Bianchi ed ha fatto anzi propria la mozione con
cui egli «invitava il governo ad esaminare e risolvere il problema della siderurgia».
La tesi dell’on. Bianchi si può riassumere nella formula: per la siderurgia - contro i siderurgici, ed il discorso indubbiamente abile e brillante, con cui egli l’ha sostenuta, si può dividere
in due parti d’intonazioni diametralmente opposte, nell’una delle quali egli fa una carica contro
i finanzieri, che hanno-considerato la siderurgia
come un semplice strumento per i loro giochi di
Borsa, mentre nell’altra parte egli tenta la difesa
dell’industria, che, libera da questi elementi perturbatori e demoralizzatori, potrebbe vivere e
prosperare senza gravare sul bilancio dello Stato
e senza opprimere i consumatori.
«Se la siderurgia italiana, egli conclude, vuol
vivere e, da industria parassitaria, trasformarsi
in industria seria, sana, benemerita per la nazione, deve mutare strada, farsi un programma ed
una organizzazione tecnica e scientifica, stare
nei laboratori e nelle officine, non in Borsa;
guadagnare in qualità ciò che gli altri Paesi più
fortunati hanno in quantità, utilizzare nella
maggior copia possibile forze, ricchezze, elementi nazionali finora trascurati... Essa deve ridurre al minimo possibile il numero dei forni
Martin; cercare di introdurre nel maggior numero convertitori e forni elettrici e muovere
elettricamente tutte le macchine accessorie. Essa deve progressivamente trasformare in acciaierie le ferriere arretrate ed annettere laminatoi
a tutte le acciaierie... Essa non deve chiedere né
carbone a prezzo politico né condizioni di favore per derivazioni di acque pubbliche, né
chiedere commesse di prodotti onerose per lo
Stato; ma essa deve darsi una sistemazione integrata ed organica, tale da consentirle una vita
propria ed indipendente, non dannosa per l’economia generale del nostro Paese».
Queste conclusioni sono supergiù uguali a
quelle a cui erano giunti nel 1917 l’Iannacone
e il Catani, potrebbero essere sottoscritte da
qualunque liberista e potrebbero ottenere il pieno consenso di tutti i socialisti, se il Bianchi non
avesse avuto il torto di giungere a questa invocazione di una siderurgia trasformata, che sarebbe in sostanza una siderurgia di acciai speciali e di semilavorati, attraverso una difesa della siderurgia qual’essa è attualmente in Italia, di
una industria, cioè, che produce in grande prevalenza materie grezze, che non possono resistere alla concorrenza straniera se non con sovraprezzi altissimi, che danneggiano e finirebbero per rovinare tutte le industrie che da essa
dipendono, ed in questa difesa, che non era affatto necessaria per le conclusioni a cui egli è
arrivato, il Bianchi; nel suo desiderio di assumere l’atteggiamento imparziale dell’arbitro fra
accusatori e difensori della siderurgia, è ricorso
ad argomenti che, mentre possono trovare una
giustificazione nella sua grande fede ottimistica, non sono affatto suffragati dall’esperienza,
ed hanno intanto servito mirabilmente ai fini
immediati di quegli stessi finanzieri siderurgici,
che egli si prometteva di combattere.
Il Bianchi, infatti, come erede alle grandi ricchezze minerarie del nostro suolo inesplorato,
crede anche alla naturalità di una industria
siderurgica italiana, e vi crede perché, secondo
lui, non è affatto vero che noi siamo così poveri
di minerali di ferro, come finora si è universalmente affermato. Egli accetta - è vero - le cifre
date da Iannacone e Catani, secondo i quali la,
consistenza accertata di tutti i giacimenti di
minerali di ferro era, nel 1916, di 20 milioni di
tonnellate, mentre la consistenza probabile, secondo i calcoli, naturalmente ipotetici, del prof.
Stella, non supererebbe i 40 milioni.
Per provare che siamo ricchi egli non si ferma al confronto troppo sconfortante fra i nostri 20 milioni ed i 22 miliardi accertati finora
per .tutto il mondo; ma prende come sicuri i
40 milioni probabili e, limitando a 400,000
tonnellate di minerale il consumo annuo, arriva alla conclusione che ancora per un secolo
noi potremo fare della siderurgia col minerale
nazionale. E intanto non avverte che in un solo
anno, nel 1917, furono estratte più di 900.000
tonnellate, e che per provvedere all’intero fabbisogno nazionale, in anni di pace, sarebbe necessaria l’estrazione di almeno 2 milioni di
tonnellate, per cui le riserve accertate verrebbero totalmente esaurite in un solo decennio.
Per un industria naturale ci pare davvero
una bella alternativa! O distruggere in 10 anni
tutto quel po’ di ferro che esiste ancora in Italia e che potrebbe essere prezioso in un momento di crisi totale degli scambi, oppure ridursi a non poter soddisfare che ad un quinto
appena del fabbisogno attuale, destinato, ad
aumentare di anno in anno!
Dall’altra parte la mancanza di carbone non
ha per il Bianchi una grande importanza perché
si tratta, secondo lui, di un quantitativo assai modesto – 300.000 tonnellate appena – che può anche essere sensibilmente ridotto da un sempre
più largo uso delle ligniti nazionali e della energia idroelettrica. Ma questi suoi argomenti: ottimistici gli sono stati demoliti, se pur ve n’era
bisogno, dagli stessi difensori autorizzati della
gran’de siderurgia, e per il loro buon motivo. Il
fabbisogno di 300 mila tonnellate è soltanto - e
calcolato anche con una parsimonia eccessiva quello degli alti forni; ma, messe assieme a questi tutte le ferriere e le acciaierie, il fabbisogno
saliva, prima della guerra, come ha confessato
l’on. Bignami, a quasi 2 milioni di tonnellate.
Altro che quantità trascurabile! In un periodo in
cui l’Italia importa appena 5 milioni di tonnellate di carbone di cui quasi tre milioni son destinati alle ferrovie, tutta la restante disponibilità
dovrebbe essere riservata alla siderurgia!
Né ha fondamento alcuno la fiducia che il
Bianchi manifesta in ogni occasione per le ligniti nazionali, la cui produzione annua dopo I’armistizio è discesa, nonostante i prezzi insperatamente elevati, da 2,171.000 tonnellate ad
1.158000, costituite per la massima parte da lignite xiloide, e che assai difficilmente potrà avere un avvenire migliore, perché, come ci confessava l’amministratore delegato di una delle
maggiori società lignifere, il giorno in cui la sterlina scendesse a meno di 50 lire, la maggior parte delle miniere italiane non potrebbero resistere
alla concorrenza del carbone inglese e dovrebbero sospendere la produzione.
Resta sempre - è vero -, la speranza dei forni
elettrici, Ma anche in questo campo preferito
l’on. Bianchi si è dimenticato del lato fondamentale della questione, che è quello economico, e gli oratori che lo hanno seguito han gettato molta acqua diaccia sugli entusiasmi suoi
e dell’on. Beretta. Nel paese, obiettava il Bignami, dove l’energia idroelettrica si può avere
più a buon mercato e dove se ne sono fatte le
massime applicazioni all’industria siderurgica,
in Isvezia, su 824.000 tonnellate di ghisa se ne
producevano, nel 1917, solo 64,000 coi forni
elettrici. In Italia la situazione è assai peggiore,
perché tutta l’energia elettrica attualmente disponibile è insufficiente ai bisogni, ed i nuovi
impianti hanno un costo che supera per lo meno 7 volte quello del tempo di pace.
Per tutto ciò i siderurgici ed i deputati che
meglio ne hanno espresso il pensiero hanno riconosciuto che la loro industria non può vivere
senza il carbone d’importazione, ed anzi il loro
rappresentante, più sincero, l’on. Olivetti, ha
mosso aspri rimproveri al Governo, perché ha
lasciato che si spegnessero gli alti forni, resistendo all’onestissima domanda dei grandi industriali del ferro, i quali pretendevano che il
carbone, proveniente per via di mare, fosse loro
ceduto, al prezzo a cui era computato in, conto-riparazioni di guerra il carbone tedesco proveniente per via di terra, e cioè a 170 lire la tonnellata il litantrace ed a 240 il coke metallurgico, in un periodo -in cui il carbone inglese
era rispettivamente quotato in Italia a 700 e ad
850 lire la tonnellata! Quasicché le spese ed i
danni della guerra le avessero sostenute soltanto i siderurgici e che ad essi, e non a tutti i contribuenti, dovesse essere riservato il vantaggio
delle magrissime riparazioni!
Nonostante queste confessioni, l’on. Bianchi
crede ancora alla funzione di calmiere, di una
siderurgia nazionale e vene anzi in questa funzione il motivo più forte per la conservazione
di questa industria; ma temiamo che sarebbe
alquanto imbarazzato a dimostrarci in quale
maniera essa possa esercitare tale funzione,
quando egli vuol ridurre la produzione a 200
mila quintali di ghisa sopra un fabbisogno di
più di un milione; e, quando confessa che il costo di una tonnellata di ghisa in Italia si avvicina oggi alle 1500 lire, mentre esso varia in
Francia dalle 500 alle 750 lire ed in Belgio dalle 600 alle 650 lire; e mentre il Bianchi stesso,
nelle, proposte che egli avanza, dietro suggerimento di alcuni tecnici, per il miglioramento
dei metodi di produzione, riesce appena a ridurre il costo a 1150 nel caso che si impieghi
soltanto carbone, ed a 905 lire nel caso che si
impieghi metà carbone e metà lignite.
***
M
a del resto tutte queste discussioni sulla
naturalità e sull’utilità di una industria
siderurgica in Italia avrebbero avuto una grande importanza pratica in un altro momento ma
nei giorni in cui esse sono state fatte, la Camera aveva davanti a sé un compito ben diverso
e più urgente: essa doveva indicare al Governo
la via da seguire di fronte ad una domanda dei
siderurgici, che pretendevano di essere salvati
ancora una volta a spese di tutti i contribuenti
e di tutti i consumatori italiani.
Di fronte al fatto nuovo rivelato con tanta
chiarezza dalle lettere di Attilio Cabiati e confermato dalle dichiarazioni dell’on. Giolitti e poi
- con qualche attenuazione - dall’on. Meda era
stretto dovere di tutti i legislatori, e dei deputati
socialisti in prima linea, di prendere posizione.
Tutti questi pratici, che irridono con tanta soddisfazione agli economisti cattedratici, avrebbero dovuto dichiararsi senz’altro convinti dal
fatto di una industria, che, dopo trent’anni di esistenza, dopo favori e protezioni di ogni genere,
dopo un primo salvataggio impetrato nel 1911,
con largo concorso delle Banche di emissione,
dopo i profitti altissimi ottenuti in quattro anni
di guerra, non solo non si è consolidata, ma, al
primo accenno di una crisi mondiale dei prezzi
si presenta subito in istato fallimentare e dichiara
che l’ottenuto finanziamento di 350 milioni di
lire (questa almeno è la modestissima cifra confessata dall’on. Meda) non basterà a salvarla, se
nello stesso tempo non le si assicurano nuove e
grandi commesse di Stato a prezzi di ricatto, e
forniture di carbone a sottocosto.
Dopo un tale fatto, parlare di un’industria,
che, risanata e purificata, può vivere senza
protezione doganale, senza commesse di favo-