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PROLOGO
Ogni giorno, in ogni parte della terra, i Cercatori ci osservano.
Boston
Stati Uniti
“C
he mi venga un…”
Il Professor Pendleton non finì la frase,
rammentando a un tratto di trovarsi nel bel
mezzo di una lezione. Distolse lo sguardo dalla finestra e, assecondando un naturale riserbo e la proverbiale calma per
cui gli studenti si facevano spesso gioco di lui, ripose meticolosamente gli occhiali da lettura nella custodia e sfregò le
mani fra loro per togliere la via la polvere del gessetto con cui
aveva appena assegnato il compito alla sua classe del MIT.
Con celata inquietudine si avvicinò poi ai vetri socchiusi da
cui filtrava il tepore dell’imminente primavera. I pochi studenti del suo gruppo di lavoro, alcune tra le migliori menti del Massachusetts Institute of Technology di Boston, solitamente ansiosi di lanciarsi nelle sfide del Professor Reed,
come amichevolmente lo chiamavano, stavolta sembravano
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più attratti dal suo insolito comportamento che dalle equazioni sulla lavagna. Dopo una veloce occhiata all’esterno, il
volto del Professore si distese finalmente in un sorriso liberatorio. Aggiustandosi con una mano la cravatta rosa, più
per l’impaccio di tutti quegli occhi puntati addosso che per
vera necessità, rivolse alla classe poche parole di scusa e si
diresse deciso verso la porta ancora aperta e, di lì, giù per le
scale, guadagnando l’uscita dell’edificio. Appena fuori, prese un respiro profondo, assaporando l’aria pulita e pungente
di quell’insolito mattino. Un vento leggero gli attraversava i
capelli sottili, appena poggiati sulle spalle. La lunga frangia,
biondo cenere, gli copriva quasi il volto. Con gesto abituale
la tirò indietro, raccogliendola sull’orecchio sinistro da cui
luccicava un piccolo orecchino.
Reed Pendleton non aveva ancora trent’anni ed era uno
dei più stimati scienziati d’America. Un genio, a detta di molti. Subito dopo la laurea in matematica aveva ottenuto un
incarico di insegnamento nella più prestigiosa università del
mondo. Il volto diafano e imberbe e la corporatura esile gli
regalavano addirittura qualche anno di meno, costringendolo
a rincorrere la sua pur giovane età indossando sempre giacca
e cravatta, rigorosamente colorata, su un paio di irrinunciabili jeans. Espediente inutile, visto che il professore sembrava
comunque un ragazzino. Si guardò intorno per un minuto.
Forse due. Un tempo che gli sembrò interminabile. Il parco
era praticamente deserto a quell’ora. Con le mani nelle tasche
dei pantaloni, teneva le spalle un po’ sollevate e il collo contratto; gli occhi socchiusi per cercare di focalizzare senza il
sostegno degli occhiali lasciati distrattamente sulla scrivania.
All’improvviso, un rumore attirò la sua attenzione. Mentre
il corpo si scioglieva e ritrovava la sua naturalezza, il volto si
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aprì in una risata non troppo sonora e finalmente dalla bocca
gli uscirono le parole, insieme ad una lacrima commossa.
“Non mi sbagliavo, dunque, sei proprio tu”.
Nonostante non lo vedesse da moltissimo tempo, la sua
voce non tradì nessuna incredulità. Era certo di quell’incontro come della sua vita stessa.
“Ti trovo in gran forma, amico mio” gli disse avvicinandosi “Gli anni non ti hanno cambiato affatto”.
Poi, rinviando i convenevoli a un momento che ora sapeva
sarebbe arrivato presto, dette voce ai suoi pensieri più profondi.
“Ti ho aspettato a lungo ma non dubitavo che saresti tornato da me. Sono ansioso di sapere cosa hai trovato. Vediamoci stasera al solito posto” concluse guardandosi intorno
con circospezione, come a cercare i segni di qualche possibile, quanto indesiderato, ficcanaso.
“Ora va’, Orlando” disse perentorio ormai girandogli le
spalle a difesa del loro ritrovato segreto.
Orlando non se lo fece ripetere e, con maestosa eleganza,
spiccò il volo.
Mentre il Professor Reed si riavvicinava a grandi passi
all’ingresso, infreddolito dalle temperature ancora troppo rigide per la sua giacca leggera, un paio di ragazzi in bicicletta
si scontrarono con un passante fermo a naso in su, proprio
in mezzo alla pista ciclabile. Il piccolo incidente richiamò di
nuovo la sua attenzione. Levò lo sguardo a sua volta. Era davvero il più bel falco che si fosse mai visto.
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Londra
Inghilterra
Una nebbia fitta e insistente copriva da ore la città subito
sopra lo sguardo. I giardini di Chelsea erano tra i più belli di
Londra e si snodavano geometrici e regolari tra file di palazzine bianche dai portoni robusti che esprimevano la forza del
tempo trascorso. Logan conosceva alla perfezione ogni angolo di quel quartiere residenziale che da così tanto tempo era
il suo quartiere. Ogni incrocio, ogni insegna di antiquario,
il profumo del panettiere subito dietro l’angolo e quello di
ogni singolo fiore meticolosamente piantato dagli abitanti del
posto. Quella mattina i suoi ricordi più nitidi gli venivano in
soccorso ad ogni passo mentre, con pantaloncini da jogging
aderenti e canotta nera, correva riuscendo a distinguere solo
le sue scarpe.
Faceva lo stesso percorso ogni giorno alla stessa ora; molto presto, giusto in tempo per ritirare i suoi muffins che sarebbero stati ancora caldi dopo la doccia. Non era un uomo
abitudinario ma sapeva rispettare delle regole ferree. E con
determinazione aveva costruito quel fisico perfetto che continuava ad attirare lo sguardo ammirato delle molte ragazze
che, come lui, a quell’ora frequentavano il parco alla ricerca
di un po’ di quiete. Aveva gambe scultoree e un bacino stretto e solido sorreggeva il busto da atleta e le ampie spalle: era
bello di una bellezza ruvida e maschile. I corti capelli neri,
mai pettinati, non distraevano dal fascino del volto, grande e
un po’ irregolare, scuro, con la mascella pronunciata. In vista
delle panchine sotto casa, rallentò il passo predisponendosi
allo stretching. Poggiò il sacchetto da cui saliva il profumo
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dell’ormai prossima colazione e la piccola salvietta bianca
che teneva sulla spalla sinistra. Prima che il suo corpo potesse allungarsi concedendogli ristoro, percepì nettamente uno
sguardo che si poggiava su di lui. Capì subito di cosa si trattava. Senza perdere tempo e con una naturalezza che poco si
addiceva alla straordinarietà del momento, prese le chiavi dal
marsupio sui suoi fianchi, raccolse le sue cose e aprì il portone. Lo tenne aperto con il braccio teso rimanendo tuttavia
sulla strada: voleva assicurarsi che nessuno vedesse Elisabeth
uscire dal riparo delle siepi per salire correndo verso casa
sua. Sapeva bene che si trattava di uno scrupolo: Logan conosceva quello splendido lupo grigio da sempre e mai una
volta si erano messi nei guai. Erano una coppia perfetta.
“Fa’ come se fosse casa tua” le disse, appena entrato, carezzandole la testa con i modi consueti di un gesto abituale.
Nonostante la giornata uggiosa, le finestre ampie riempivano di luce quell’appartamento sobrio ed elegante, arredato
con gusto e dotato di ogni comodità.
“Faccio una doccia e sono da te, vecchia mia” aggiunse
versandosi del succo d’arancia da una caraffa posta sulla
grande isola in acciaio della cucina. “Se sei qui, è tempo di
metterci al lavoro” concluse prendendo il telecomando che
accese contemporaneamente il fuoco nel camino e lo stereo.
Logan era un uomo che sapeva come godersi la vita. Mentre scompariva lungo il corridoio, Elisabeth percorse il parquet di rovere fino al tappeto chiaro, proprio davanti al fuoco, e lì si sdraiò attendendo il suo ritorno.
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