006. Il genio di quadri C`è chi si dimena invasato come un afro

Transcript

006. Il genio di quadri C`è chi si dimena invasato come un afro
006. Il genio di quadri
C’è chi si dimena invasato come un afro-emiliano quando mi
vede, sghignazzando sotto i lunghi baffi finti del suo circolo corsaro.
E c’è chi invece mi scaccia infuriato arrivando persino ad imporre le
mani. Certe ruvide mani indurite dai turni dell'avanguardia storica,
ribaditi ormai soltanto per turbamento amatoriale, che mi fioccano
comunque abbondanti sulla coppa. 1 Perché è convinto che gli pesti
l’asfalto e glielo rovini tutto intorno al bordo. E poi è costretto a rifarsi
la Betoniera, quella signorina gentile che abita al piano di sopra,
sempre con un sacco d’assistenti infervorati che le portano a casa la
spesa a tutte le ore… Un viavai di barbatrucchi che mi viene il mal di
testa con le quaglie a pensarci. Allora non ci penso più e stiamo pari.
Mi chiamano «M’atto e M’arrabatto» il Mercoledì Mattina nel
bel Mezzo del Mercato. Ma anche alla fermata della Metro, Metro e
Mezzo... 2 Sotto Natale pure «Melchiorre Mentecatto» come un re
Mago da Mirra del presepe Marsicano… «MavòviaMalachia» come
mio zio Malachia, quello che stava in Montagna a fare il Mistico e poi
è Morto sott’olio una notte a Morzano di Biella. Perché l’altro che vive
a Malcantone coltiva sottaceti e non è mai stato nemmeno al Mare.
Praticamente m’inchiodano sulla nuca a badilate ogni termine
che inizi per emme, o che ne abbia quantomeno osato un’intenzione
Maiuscola fin da piccolo. Nei pomeriggi estivi mi concedono inoltre il
ristoro del Mezzo scemo da riporto, casse di Martini più che altro. Ma
anche due dita scarse di Malvasia rosato, un bel cubetto di ghiaccio
nelle Mutande, una Manciata di patatine avvizzite sul pavimento…
1
Allusione implicita al relativo taglio del maiale utilizzato per confezionare l’omonimo
salume da concorso biblico, bello carico di spezie ittite o basso-egizie. Epiteto esteso poi
per contumacia osmotica al porcino prossimo, per quanto più propriamente qualificabile, la
coppa di quest’ultimo, come un severo «coppino» d’ordinanza, sia pure affettabile a scelta.
2
Naturalmente a Brazzaga c’è solo l’omnibus a vitelli, ma era già passato. E poi questo è
M’atto, cosa ci si può mai aspettare che dica? Anche perché, ad essere precisi, noi non
siamo mica a Milano, e i Metri li usiamo solo per soppesare le Mezze Minchiate che si
sentono sparare a diritta e a manca, a turno, o anche tutte intere in una volta, cassintegrate
con la besciamella a sottili sfoglie opaline, come lasagne appena sfornate dalla fabbrica.
56
Veramente con la biada ispida del badile mi rifilano dello
scemo per intero, quello che gli avanza nel bicchiere. Non volevo
scivolare in un eccesso di Millanteria così fine a se stesso… E poi la
emme stava con Mio cugino al bar e non mi sembrava il caso.
Una volta ho sentito Simonazzi promuovere una variante alla
consuetudine letteraria, accusandomi di gradire, o forse no aspetta…
d’impersonare con precisione Maniacale una verdura con la effe, che
tra l’altro mi piace anche poco. Tutti quei fili molesti che s’incastrano
tra i denti come il sedano e non vengono più via… Quel vago sentore
d’anice… Stessa giacca a righe stellate, diceva lui, stesso berretto
da asso di denari... Come il sedano. Ma è stato un episodio isolato, il
tempo rapito ad un chinotto d’altura. Con buona probabilità m’aveva
scambiato al buio per la Martabella, un luminare ibrido di Novellara
che veniva a sbattere i cuscini impolverati alla sagra di Brazzaga,
sventagliando insieme alla borsetta un foulard viola identico a quello
che indossavo io per imitare il mio idolo, don Curato, sotto Pasqua.
Perché vede, signora la Maestra, le regole sono fatte apposta
perché qualcuno, qualche prezioso segugio vaneggiante e zingaro,
impari da solo a farne a meno. Tanto da riuscire anche a piazzare un
bell’articolo determinativo davanti al nome proprio di ciascuno, sia
egli Maschio e Monarchico quanto un sedano Mona, o a proporne un
impiego con tanto di Minuscola collettiva, senza vergognarsi troppo
della propria sciarpetta lilla da mercatino del sabato. Provi a pensarci
sotto quel suo cappuccio a punta tonda, così a modo che mi sarebbe
anche venuto d’accompagnarla a casa in bici, avessi portato soltanto
qualche emme di meno sulla Minchia da farmi fracassare a rate.
Per intendermi con maggiore scioltezza, poiché m’indovino
pallido attraverso lo specchio del pio giudizio, posso descrivermi
senza ombra di riflessi indubbi come il giullare isotropico del Destra
Po. Ovvero, in ugual direzione, il coglione ermetico del paese. 3
3
N.d.C. L’utente esercita il suo diritto di outing… l’avevo detto io ch’era effe-minato. Si
dichiara sopraffatto da visioni allucinatorie di sexy maestrine con bacchetta, che prima se lo
vogliono slinguare tutto intero nei sottoboschi, poi non lo vogliono più, poi se lo rivogliono
di nuovo nei sottoscala roventi doppio malto, sui divani di scorta, almeno il suo pezzettino
retrattile, per non rivolerlo più appena dopo. All’utente, che nel frattempo s’accoglionisce
duro, viene l’isotropia sottocoperta. Come il sedano. Da un giorno all’altro egli s’accorge
infatti d’essere stato coglionato in qualunque direzione si sia posto in essere, a tal punto che
qualora gli eventi accaduti sottovuoto potessero mai replicarsi all’inverso, mostrerebbero le
medesime proprietà coglionari in modo del tutto omogeneo. Non che sia stato spiacevole
per certi versi. È il chiacchiericcio di contorno alle patate che l’ha fatto uscire dal forno.
Quello sottospirito al bar soprattutto. Per fortuna il Secondo principio della termodinamica
ha imposto al sistema isolato dell’universo un’entropia in solo aumento, rendendo così
impossibili quelle mezze idee di riproviamoci con ordine che magari viene meglio.
57
E ci voleva tanto, Madonnina? Mi si potrebbe anche biasimare
sull’esile filo dell’eresia edicola verso strada Argine. Non è facile zia
Norina, reagirei io senza baciarla troppo per le rime che la zia ha un
gran mal di gola ereditario. Con tutte quelle testoline impomatate che
paiono incaponirsi a cinguettare puntigliose sul perché o il per come
mai della letizia mammellare altrui, e degli appalti passati, presenti e
futuri necessari per sorreggerla in tiro tra due virgole erette. Percome
e porcume, questa è la grammatica del paese con cui mi tocca fare i
conti ogni giorno. Poi dicono che sono io quello strano!
Comunque mi si voglia supporre informato, con emme turgida
rampicante o con giudizio di sentita stima stampigliato ad X in fronte,
sono l’oggetto principe di tutte le Maldicenze che i miei concittadini
villici si sentono investiti dal fato a presumere per vero. Ma vero vero.
E devo ammettere in tutta onestà che mi diverto un sacco a ricoprire
questa carica dimostrabile, poiché a prescindere dal pretesto, qui c’è
davvero tanto da imparare per un ricercatore scientifico appassionato
d’auguri come me, così equamente avido di congiunzioni sinaptiche.
Il fatto è che purtroppo il mio cervello ama procedere a regimi
differenti rispetto a quelli avuti in usufrutto da quanti mi bivaccano
intorno. Per una questione d’ottani e di briscole credo. Mai mischiare
queste cose con i funghi di Morselli. Oppure il mio governo mentale è
semplicemente estraneo a quello di tutti i passeggeri transitati a
plotoni per questo mondo d’armigeri e oche brune, per i suoi infiniti
universi paralleli, perpendicolari, o ripiegati timidamente su se stessi.
Non sta poi a me accordarne il congedo. Si vede che provengo da un
altro sistema, il catenaccio all’italiana mi ha sempre messo i brividi. 4
4
Occorre precisare che il «catenaccio» l’ha inventato in realtà il dott. K. Rappan nel 1932,
mentre cercava d’imbonirsi la commessa dei formaggi nel retrobottega d’un bar di Ginevra.
Erano entrambi in pausa caffè e siccome il bisogno tien vispo l’appetito, il dottore da bravo
svizzero ha investito sul principio, infilandolo nei buchi dell’emme-ntal a pasta molle per
sguainarlo come nuovo in seguito, quando allenava la sua Nazionale. Le solite malelingue,
vista la quantità di dottori da traforo che bazzicano anche nei nostri retrobottega, hanno poi
ribattezzato «all’italiana» questa particolare attitudine. Nella sua versione pura il catenaccio
prevede un robivecchi libero che fa il raddoppio, così quando il marito rientra in anticipo o
quando l’attaccante s’avvicina troppo alle spalle, oppure salta il marcatore fisso, lui fischia
dalla strada o grida frasi a squarciagola, tipo… «Uomo!» A volte però succede che il libero
s’addormenta nell’area piccola, o che nella foga individualista ci s’illuda di poterne fare a
meno… «Mia!» Questa variante impropria del sistema, in mancanza dei bei chiavacci d’una
volta, quelli inchiodati ai portoni dai sacramenti al sangue, quelli che se pure tenevano fuori
gl’indesiderati non lasciavano più nemmeno uscire gl’internati, risulta spesso risolta da un
epilogo di strepitii e randellate, di rimorsi e musi lunghi a merenda. Per fortuna, il Secondo
principio della termodinamica ha imposto al sistema isolato dell’universo un’entropia in
solo aumento, rendendo così impossibili quelle mezze idee di riproviamoci con ordine che
magari viene meglio. E nei buchi molli ci hanno infilato pure le donne a fare da arbitro.
58
Difatti, per dirne una che mi turba adesso, non so in barba a
quali incentivi io abbia smesso d’aspirare toscani nei ristoranti, non
avendo peraltro mai capito come tostarli bene fuori. Ma questi sono
dettagli privi d'un riscontro narrativo, storie sdrucciole da marciapiede
che s’accelerano in cerchi ossessivi e trascurano l’erbetta limitrofa.
Allegati glabri d’un nonnulla esplicativo che mi fa volutamente ridere
mentre lavo i piatti della cena per ripagarmi dell’aria fritta. Eppure
nemmeno so spiegare perché mi risulti così ovvio moderare il volume
dello stereo dopo la mezzanotte svizzera comunemente intesa. Un
bel Yamaha slanciato… lì sul comò Ikea in prosciutto e ciliegio… con
rotella da dieci centimetri abbondanti… Diciamo da ottobre a marzo,
perché poi mi spostano i numeri sul quadrante e non ci capisco nulla.
Immergo il piatto della cena nell’acqua tiepida, soprattutto se
ho rinvenuto un nocciolo duro tra i buchi della pasta. E poi non sputo
mai per terra, come ogni autentico cittadino sportivo dovrebbe invece
imporsi di fare con stile ogni sei o sette minuti primi. Specialmente in
campagna dove c’è sempre un po’ di frumento che boccheggia.
Quanto poi alla trovata della ripartizione liturgica delle offerte,
un bidone solo per la plastica, uno per il vetro, uno addirittura per i
pistacchi… In verità, e me ne vergogno un po’, avevo pensato ad un
deposito, solo che privo d’interessi irrancidiva… Comunque, dicevo,
dopo una votazione d’emergenza tenutasi alle tre del mattino nella
stalla grande, la lozione venne respinta, forse assorbita dal cappello,
malgrado ci fossimo inoltrati in ginocchio nelle viscere goderecce del
secondo millennio, con tanto di cappuccio alla fragola in tasca e un
bel guantone da veterinario calato sul braccio, diventando all’istante
la buona novella da tutte le parrucchiere berbere della Bassa, piene
di riviste moderne e cammelli a carbone, bigodini illustri e pancetta
pura, proboscidi anzi che logiche e fulgidi destini. Epifania spontanea
d’una Verità ellittica discioltasi in troppi ettolitri d’acqua rosa per farsi
ancora riconoscibile sotto il casco. Lo zio di Rasini, noto giornalista
locale dallo spirito sopraffino, prese appunti dattiloscritti. Notando lo
straordinario successo etilico riportato presso la mensa d’ogni buona
famiglia brazzaghese, egli decise di sotterrare in giardino un prezioso
scrigno a tenuta stagna con dodici copie della sua cronaca vigile.
Insieme alle donnine ritagliate con cura dalla guida tv, a beneficio
esclusivo delle vigilanti generazioni di ciechi a venire.
Quando mi alzo al mattino, abitudine già di per sé impropria,
mi rado. Mentre dovrei pur sapere quanto sia preferibile radersi
all’imbrunire per non sgualcire le federe appena stirate. Lo sanno
anche gli scaltri stoccafissi scozzesi che s’arrampicano arrancanti
sugli erti crinali delle Highlands. Eppure, mi chiedo, cosa potrebbe
59
mai rappresentare uno stoccafisso scozzese ben essiccato per farsi
intendere dai presenti senza masticarsi la lingua? Un Beckett appena
più tignoso? Un de la Barca incattivito dagli incubi pecorecci della
flanella? Dovrei allestire una tragedia tardo-romana con stuolo di
cornamuse sfrenate e culi al vento? Non credo d’averne il coraggio.
E mi sforzo nel contempo d’allontanare dalla Scozia, per pudore se
non altro, l’automatico accostamento a quel cantante che sta appeso
a braccia aperte sopra la porta della cucina, quasi fosse crocifisso,
con l’ulivo secco che gli spunta da dietro come un salame da guerra,
un obice usato, e con un comodo kilt cucito su misura. D'altronde mia
mamma è sarta e sono anche scusabile, Metro più, Metro meno.
Cerco sempre di rispettare le povere ragazze che frequento in
ogni occasione… Questa è bella… Ma loro mi ridono in faccia senza
ritegno perché «…in venticinque anni che ci comprendiamo, non hai
provato nemmeno una volta ad innestarmi una mano alla parigina fra
le cloches del cambio, Maramaldo… Come faceva invece quell’altro
Marlonvaldo del film che davano ieri sera sul sette, sai… mentre la
mamma commossa s’inselvatichiva di piccole omissioni…» E non
riesco nemmeno a tapparle la bocca con qualcosa d’estemporaneo e
compatto come farebbero proprio tutti. Anche un cappello di lana
appallottolato bene intendo, non c’è bisogno di pensare subito male.
Ogni tanto porto i fiori al cimitero, per quanto non m’arrischi
certo ad attribuire ai vuoti resi la facoltà d’intercedere a mio favore,
magari corrompendo qualche santino plastificato con una strizzata di
capezzoli. Lo faccio solo per onorare l’estinzione dell’ultimo appiglio,
quello più pesante, da parte di spiriti miei eventuali confratelli. 5
Ebbene, vengo di nuovo preso a calcioni lì nel mezzo, o a sgargianti
sberle suine, proprio perché infesto il posto migliore per i funghi,
balordo d’un Medardo a nafta, la fungaia, o la funghiera a seconda
dei mezzi volti della Luna, e li faccio scappare a borsinate. Anche i
ritardatari con la emme giù in cantina sanno quanto i funghi detestino
lo scalpiccio, e preferiscano piuttosto trifolarsi illibati nelle loro ospitali
casette di montagna, non appena sorprendono qualche sprovveduto
5
Chi non ha mai avuto una zia perpetua che gli ha riempito le tasche e un po’ i coglioni di
santini? Io ne conservo ancora alcuni corredati di reliquia plastificata sul retro. Belli… La
mia di zie aspirava inoltre di persona alla santità plastica, ed era talmente presa da questa
ossessione estetica che conservava nell’armadio svariate lenzuola di lino pregiato, affinché
noi potessimo ritagliarle a tempo debito. Se eravamo bravi ne sarebbero usciti migliaia e
migliaia di sottaceti già pronti all’uso. Così diventate tutti ricchi, diceva, come a Lourdes.
Senza contare poi le borsine dell’acqua calda… Per fortuna il Secondo principio della
termodinamica ha imposto al sistema isolato dell’universo un’entropia in solo aumento,
rendendo così impossibili quelle mezze idee di riproviamoci con ordine che magari viene
meglio. E la zia è sì morta santa, ma s’è scordata di piantare miracoli nell’orto.
60
intento a fischiettare un motivetto andante. Col prezzemolo e un po’
d’aglio, più che col sedano. Ma io in genere sto sui Jethro Tull.
E poi quella sciocca abitudine di fare sempre la pipì all’interno
d’un buco ovale, che vergogna, nemmeno la più piccola goccia fuori!
Non vorrei tuttavia apparire una persona Malinconica, sia ben
chiaro. Una di quelle che un giorno sanno tutto quanto c’è da sapere
sul Mondo che desiderano intorno, sulle possibili varietà degli yogurt
di Marsiglia, degli smalti espressi per Malaga, che decidono per te
scambiando il loro accadere superfluo col tuo, straziandoti d’occhioni
languidi. Mentre appena il giorno dopo stanno riverse sul divano di
casa d’altri e non ricordano più nemmeno come ti chiami, come si
chiamano, come ci chiameremo mai stasera, domani... Malgrado tutti
questi disguidi infatti, continuo ad andare dal dottore solo se ritengo
di poter essere Malato e a spuntarmi i capelli quando sono Mossi.
Poiché questa è la mia natura nominale, e sono cosciente d’espormi
agli sberleffi scurrili di tutti i presenti e di tutto il pubblico a seguire dei
racconti in poltrona. Per i secoli dei secoli. Amen.
E in chiesa, in tal proposito? Quando dovrei andarci, o non
andarci invece, per figurare stoccafisso oltre il limite culturalmente
riconosciuto, non dico in Scozia, o almeno non solo da quelle parti lì,
quanto in qualunque altro ambito civilmente accidentalizzato? Tutti i
giorni? Questa sì che parrebbe Morbosa come soluzione umanitaria.
Più vicina all’olio di ricino ritagliato dalla guida tv che a quello d’oliva.
Una volta alla settimana? Ne sarei tentato… Solo che dovrei impormi
di non pensare a nulla di sacro per sei giorni interi, fatta eccezione
per il Gesù bambino di gesso nella Mangiatoia, col bue Minotauro e
l’asinello Minuccio che fanno sempre tenerezza, e poi dopo un giusto
riposo tempestato di feroci tentennamenti intestini, rilassarmi tutto in
un botto con la cospicua emancipazione domenicale. Dlin! 6
6
Quando uno ripensa alla quantità di presepi che s’è fatto nella vita e alla quantità di quelli
che poi ha dovuto disfare appena un mese dopo, gli viene da piangere. Le montagne, il
ruscello, la grotta… E gli viene anche da chiedersi perché mai il numero dei medesimi, che
ha verificato tre volte per esserne sicuro, corrisponda perfettamente alla sua età anagrafica,
al numero di candeline che spegne per il compleanno, alla cifra che si deduce accostando
l’anno in corso con quelli già partiti sul binario Indovino. E la cosa incredibile è che sembra
essere così per tutti, a meno che per disgrazia non si fabbrichino presepi di mestiere, e che
per tutti sarà così fino alle ultime iscrizioni che ci rappresenteranno mai, quelle incise nel
marmo della lapide. Perché anche lì, se si sottrae dal numero di destra quello di sinistra, si
ottiene il numero esatto dei presepi che uno s’è fatto e poi disfatto nella vita. Lo so, si fatica
a crederlo… eppure è così. Provate voi stessi e ne rimarrete sbalorditi. Deve essere una
questione legata a qualche misteriosa legge termodinamica ancora sconosciuta, o alle spezie
farisee che esalano dal mio mezzo comodino Ikea. Prosciutto e ciliegio si direbbe… E poi il
presepio non m’è mai piaciuto. Cfr. E. de Filippo, Natale in casa Cupiello, commedia del
1931. C’è sempre qualche pezzo rotto nella scatola e Malavasi non li aggiusta più.
61
Così, stritolato tra il garibaldino acceso e lo stracotto d’asino,
ho naturalmente adottato l’unica soluzione che potesse isolarmi dal
corto circuito comunitario e farmi additare come il solito coglione da
polenta. Decisi cioè di non proiettare la mia sostanza perfetta su
nessun mito artefatto a me forzatamente esterno, e di afferrare con
decisione le redini sciolte dell’essere unico che m’investe da sempre,
accettandone le responsabilità del casato. Sennonché quando parlo
così m’intuisco solo io e devo arrendermi all’evidenza: sono davvero
un coglione, ma uno di quelli grossi, uno di quelli americani. 7
Per un certo periodo ho desiderato con tutto me stesso di
essere normale, ma è davvero difficile diventare normali se non lo si
è già. Se si è nati sfortunati, privi di mani lunghe, con una testa sopra
alle spalle, un forte senso di solidarietà e d’integrità morale cosmica,
e il bisogno di rammendare i calzini bucati con il filo del loro stesso
colore. Solo se non devo sfilarlo via dalle tende del soggiorno però,
altrimenti va bene anche giallo. Così decisi di frequentare Sganzerla
il robivecchi, un vero maestro d’armi per il pulcino infranto quale io
allora reputavo di dovermi intendere. Lui m’avrebbe aggiustato.
Credevo si dovesse aspettare pazienti finché qualche animo
sensibile e carino non portava qualcosa di vecchio in laboratorio, per
rimetterlo a nuovo o per recuperarne le componenti riciclabili. Che
scemo… Imparai a suon di scoppinate come sia piuttosto preferibile
andare in giro di notte vestiti di nero, a scassare e scassinare tutto
ciò che si può senza farsi troppo notare dal volgo. Affinché nulla di
quanto s’è scassato sia più riparabile nella maniera tradizionale,
Sganzerla consiglia vivamente il fuoco così può giungere benedetto
dal robivecchi, e tutte le porte scassinate consentano di procurarsi al
più presto un numero elevato d’oggetti nuovi. I quali per fortuna non
abbisognano d’ulteriori cure specifiche, almeno per il momento, e si
7
Come mi ripeteva Timothy Francis Leary fin da quando succhiavamo il chinotto insieme
all’asilo, «Sei proprio un gran coglione con la emme, zio, uno di quelli grossi però. Uno di
quelli americani. Sai che lì se non sbragano non sono contenti. Vedo la tua testa gonfiarsi
come un tizio che vola s’una torta fiammeggiante… Alle fragole o poco più. Forte… E non
resta nulla da aggiungere al Marmo. Per fortuna il Secondo principio della termodinamica
ha imposto al sistema isolato dell’universo un’entropia in solo aumento, rendendo così
impossibili quelle mezze idee di riproviamoci con ordine che magari viene meglio.
Scrivitelo da qualche parte, Mammalucco, e poi racconta a tutti la buona novella ogni volta
che puoi. Ma solo quando io sarò abbastanza Morto da farmene una ragione.» Cfr. Moody
Blues, Legend of a mind, dall’album In search of the lost chord, Deram Records/Polydor
Records 1968. Si veda anche di T. Leary, con R. Metzner e R. Albert, The psychedelic
experience. A manual based on the Tibetan book of the dead, Penguin Classics, London
2008 (I ed. 1964). Per chi infine non ne avesse mai abbastanza, consiglio di A. Huxley, Le
porte della percezione - Paradiso e inferno, collana Piccola Biblioteca, A. Mondadori
Editore, 2005 (I ed. 1954), ma anche e soprattutto l’intera filmografia di Ilona Staller.
62
può stare un po’ tranquilli. Poi si va tutti in golena e al buio si parla
con gli spiriti dei sottoboschi, tra i cespugli d’ortiche, i mirtilli, mentre
loro ti danno tantissime monete rotonde e quadrate da portare fino a
casa se vuoi. Strano, io conosco quei simpatici folletti da parecchi
anni e a me non hanno mai passato nemmeno un biglietto d’auguri.
«E se invece aspettassimo la primavera, maestro integerrimo,
per festeggiare l’Equinozio?» domandai una notte di gennaio alla mia
guida spirituale, tutta occupata a tracciare un pentacolo di sette metri
in piazza, proprio sul prato antistante la chiesa. Ma… bello!
Floriano Maria Sganzerla era stato un grande fantasista di
centrocampo in gioventù, la più agile mezzala padana che si fosse
mai vista dileguarsi tra le fragole, tarpata poi sul nascere da una
spinosa faccenda d’incentivi silvani… Ma vai a sapere cosa pensa il
fuoriclasse quando è il momento di fare il raddoppio con la moglie del
portiere e a un certo punto della carriera non gli riesce più. Magari si
becca un’isotropia e decide di smettere. Sganzerla aveva comunque
conservato il proprio estro in ogni cosa facesse, nelle osservazioni
sul tempo, nel portamento indiziario, nel costume notturno. Persino
nei complimenti elargiti alle signore e alle signorine indistintamente,
fossero la nuova moglie del sindaco tirata a nuovo per la messa, la
barista del caffè all’angolo, le suore scalze del convento o l’ultima
prostituta con gli stivali visitata di ritorno dai lavori di scavo, ad aurora
avanzata. Il suo fervore a pasta molle non conosceva riposo.
Con me in particolare aveva poi maturato un’abilità prodigiosa
per l’insulto. La piazza intera si dava da fare ogni giorno affinché io lo
irritassi in qualche modo, allo scopo di vederlo esplodere in tutta la
sua straordinaria smoccolatura. In quei particolari momenti mostrava
la vera natura della propria anima ribelle, e non riusciva più a domare
quel disdicevole accento reggiano che ne tradiva l’origine occulta, il
Marchio della peggiore infamia, il gran Misfatto dei bei tempi sepolti
sotto vagonate d’omnibus a vitelli elettrici, sotto montagne di Merda e
sottaceti, affogati in Minestrine eterne, persi a rotoli in Meloni liberi di
Mignotte ardenti, in frenesie Morbose di Manovali attenti. Segreto
confidato soltanto alle menti più Marmoree della sua e ormai svelato
a tutto il Destra Po proprio dall’amico don Curato, a sua insaputa.
Ma quella volta era davvero stanco. Se la Betoniera non gli
avesse estratto una buona porzione di Midollo, quella Mistica che sta
in Montagna, avrebbe dipinto un’apoteosi di cancheri da far piangere
d’invidia il Giudizio di Michelangelo, e tutti gli affreschi a legna d’ogni
edicola levata in questo Mal cantone dell’universo pizzaro, esistenti,
esistiti, o appena intuiti nel sacro delirio dei visionari stipendiati dalla
fame. Con tutti i maledetti presepi strafatti insieme a loro. «…Mia!»
63
Così risolse per un più pacato «Te sì Martàison che sei un bel
genio di quadri!», assestandomi nel contempo un gancio maligno
sotto il mento appreso di notte meditando sul grande pugilato tra uno
spogliarello e l’altro, o forse ereditato dal padre prima della sua fuga
in montagna con la moglie di Morselli e due borsine piene di funghi.
Certi artisti maledetti, certi destinatari sopraffini, consumano
tutta la vita nella ricerca lacerante di qualcosa che non riescono mai
a raggiungere, spesso senza nemmeno capire la virtù di tanto ardore
e dell’ammenda antica che li mette in piega. Maledetti non per nulla.
Lui, maledetto per tre quarti di campo appena, senza fatica alcuna,
senza chiavistelli italici, pertugi svizzeri, biscotti scandinavi né trafori,
e senza nemmeno volerlo sul serio, aveva compiuto l’opera perfetta.
Ho perso un pezzo d’incisivo e mi sono rifiutato di passare in
cantina per farmelo ricrescere, dimostrando alla totalità vinificata del
paese sano come dopotutto non era stato poi così inutile il mio breve
soggiorno da Sganzerla, e che forse per me esisteva ancora qualche
speranza nel recupero. Cinque minuti buoni buoni, come minimo.
Da quel giorno quindi per il ricco e per il Monco, 8 per l’uomo
giusto ed il Marrano, per il caro William 9 e per tutti i willi che ne son
poi discesi, io sono «il genio di quadri». E quando qualche cortese
villano m’apostrofa a questo modo, io giubilo nell’animo, mentre a
seguito d’un profondo inchino alla francese, gli mostro orgoglioso il
ricordo imperituro dei bei giorni trascorsi con Sganzerla il robivecchi,
padre premuroso benché piuttosto permissivo, quanto mentore ben
educato e, a tratti scozzesi, non poco lascivo. 10
Del resto qui nessuno è mai stato prefetto, si potrebbe anche
concludere scambiandosi d’abito... Quello se ne sta tutto in città. Al
Massimo da noi c’è qualche Maresciallo con la emme. Perché è così
raro il senso che bisogna nominarlo tutto, Molesto, Misero, Mezzano,
anche se a volte sembra un M’atto contro natura, un vero scherzo
del destino. Ma vero vero. Con ordine però, che Magari viene meglio.
8
Cfr. Per qualche dollaro in più, film di S. Leone del 1965, dove il Maestro accosta la
celebre postura di Napoleone I al disagio dell’anima moderna, per simboleggiare il bisogno
intimo di tenersi ben stretti i coglioni che restano appesi. Tutti e due insieme possibilmente.
9
Interrogato in tal proposito, l’arcano VuVù sentenziò un giorno d’estate da una sedia di
vimini incanutita: «Di quadri chi? Non è che mi posso ricordare di tutte le emme che mi
sono transitate appresso…» voltandosi dall’altra parte infastidito. Ecco bravo, proprio lui,
risposi io con affetto facoltativo. E senza Mensilità aggiunta.
10
Vorrei ringraziare gl’illustri stoccafissi norvegesi per la Magnanimità dimostrata nel
concedermi d’accostare, per esigenze strettamente letterarie, le loro esclusive qualità
essiccanti al principio Minorenne della «scozzesità», concetto per il quale mi sto battendo
da anni nel corso della mia nota campagna di liberazione della Minuscola. Ci pensino lì in
Scozia tra i vari incaprettamenti, che un po’ di Merluzzo non ha mai fatto male a nessuno.
64